(Evel Gasparini, Il matriarcato slavo)
Trovo questo modo antico di rapportarsi con la malattia – e con le sue cause – estremamente armonioso. Lo sento parte di quell’equilibrio più grande a cui io stessa aspiro, e l’ho sentito profondamente mio sin dall’inizio di questa lunga e pesante prova a cui l’umanità è sottoposta.
Qualche mese fa avevo scritto un brano riguardante l’orixà brasiliano che incarna la malattia, la pestilenza, l’epidemia – e quindi la pandemia; e il modo in cui la malattia stessa viene trattata all’interno della religione candomblé, ma non solo.
In particolare riprendo:
“(…) si potrebbe pensare che sia un’entità disprezzata e denigrata, ma la realtà è che si tratta, sì, di un orixà fra i più temuti, ma anche e soprattutto di uno dei più amati, dei più celebrati e onorati. Per quale motivo?
Perché la malattia è rispettata. La malattia è riconosciuta, accettata e onorata, nonostante la sofferenza che reca, perché solo così è possibile accogliere anche il suo potere trasformativo e, se possibile, la sua guarigione.”
Ad oggi ritorno su questo concetto e lo condivido nuovamente, perché magari può essere utile a chi segue un percorso spirituale animista simile al mio.
E ripeto:
“Io non riesco a odiare la malattia, a insultarla, perché il mio rispetto per essa è molto più grande.
La riconosco, la vedo, la temo, osservo da vicino il suo potere mortifero, e per questo la rispetto.”
E aggiungo che, pur tuttavia, imparerò a non nominarla, a non chiamarla. Ma a trattarla ancora di più con rispetto, con gentilezza, dandole nomi diversi, per lusingarla a non nuocere.
Trattengo l’energia e la rivolgo, come un manto bianco e luminoso, alla protezione mia e di chi amo.
Accetto con gratitudine e fiducia le precauzioni che sono state offerte per evitarne gli effetti più gravi.
Rafforzo il corpo nell’eventualità di doverla conoscere, di modo che sia capace di gestirla e spegnerla.
E sempre mantengo accesa la fiamma,
che è speranza e guida in questo tempo difficile.
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