Per tanti anni, più della metà della mia vita, la Grande Madre è stata l’essenza del mio cammino. Mi accostavo ai suoi innumerevoli volti, li studiavo, li amavo moltissimo, eppure poi tornavo sempre e solo a lei. Quello spirito trascendente e immanente che sentivo come una madre immensa, un grembo d’amore e armonia. Per quanti anni ho vissuto alla ricerca di questo infinito abbraccio, non saprei nemmeno più dirlo. Certe volte l’ho sentito, e quelle volte sono capitate cose magiche.
Tuttavia, ogni cosa ha una fine. Anche se questa, di fine, non pensavo l’avrei mai scritta.
Troppe voci hanno parlato sopra il mio sentire, confondendolo nonostante i continui e testardi tentativi di rimanerci salda. Poi mi sono resa conto di qualcosa… io mi sentivo sempre capita, da lei. Sapevo che lei mi comprendeva, che conosceva i miei moti interiori, le mie esperienze, il mio vissuto. Sentivo il suo amore, la sua approvazione. Sentivo che era accanto a me. Anche quando camminavo in direzioni opposte e contrastanti rispetto ad altre. Rispetto a coloro che la onoravano in modi simili o estremamente diversi dai miei, e a loro volta, si sentivano costantemente approvate da lei.
Qualcosa ha iniziato a vacillare.
Se ognuna di noi, si sente sempre compresa e approvata, anche quando compie gesti o scelte contrastanti e talvolta discutibili, allora com’è possibile che nella realtà sia davvero così?
Poi il crollo.
Nella sofferenza, nel barcollare della mia verità quando tuttavia sapevo fosse vera, nella confusione, nel disorientamento, ho avuto bisogno di quella comprensione, di quel sostegno, di quell’approvazione. E in quel mentre, ho sentito e visto che proprio chi mi stava facendo male, come chi lo aveva fatto tante, tante volte prima di allora, si sentiva approvata, compresa, appoggiata. Dalla Madre.
Un velo è caduto dai miei occhi, e poco dopo, il vuoto.
Come potrebbe, una Madre, la stessa Madre, comprendere il mio dolore, l’ingiustizia subita, e sostenermi, e allo stesso tempo approvare colei che mi sta massacrando?
Io sono nel vero, mi ripetevo, la Madre sa.
Le stesse parole che si ripeteva chi stava dall’altra parte.
Vi è dunque una Madre in tutto questo, o siamo soltanto noi, che nel nostro bisogno di sentirci comprese, sostenute, approvate, ci convinciamo di esserlo niente meno che da una divinità?
Noi, che a volte crediamo addirittura di agire in nome suo, quando non stiamo facendo altro che assecondare i capricci del nostro ego.
Ripenso a un film di qualche sera fa, dove una donna, che non aveva fatto nulla di male, provava tuttavia un forte senso di colpa e ripeteva “prego che Dio mi perdoni” – quante volte l’abbiamo sentita.
Perché mai dovremmo sperare nel perdono di un’entità esterna quando siamo soltanto noi a doverci perdonare, o a renderci conto che non c’è nulla che deve essere perdonato? Fino a che punto proiettiamo all’esterno le nostre responsabilità e il nostro potere, aspettando che qualcuno faccia le cose al posto nostro? Siamo a tal punto scollegate da noi stesse da delegare la nostra stessa vita a una idea che noi stesse abbiamo creato?
Allo stesso tempo, però, siamo capaci di sentirci appoggiate e ne andiamo orgogliose.
Credo che in molti casi la religione sia una malattia.
E lo stadio più avanzato di questa malattia, porta capi di stato a compiere crimini inauditi, in nome della divinità da cui si sentono legittimati.
Eppure, in piccolo, e in modo innocuo o persino benefico, non stiamo facendo noi la stessa cosa?
C’è del vero in ciò che crediamo, o sono solo convincimenti di cui abbiamo bisogno per vivere bene?
L’ho odiata, la Madre.
Colei che amavo immensamente, l’ho detestata e l’ho disprezzata con tutta me stessa. Perché quando è crollata, non è rimasto più niente.
A-thea. Senza-dea.
Ora ripenso alla me stessa di nemmeno un anno fa, votata alla Madre, come una sacerdotessa mancata che pure a quel sacerdozio aveva dedicato la vita, e non la riconosco più. La guardo da lontano, mentre prega piena di fervore, perennemente commossa e ardente. Come una asceta o una martire.
La vocazione che mi ha riempito la vita per così tanti anni è scomparsa, crollata insieme alla Madre che dà ragione a tutte – e a nessuna. O forse è cambiata – perché altrimenti, continuerei a sentire l’ardore, che tuttavia è orfano di ciò che lo aveva ispirato?
Anche io – come la mia amata Vanessa Ives – ho gettato il crocifisso nelle fiamme del camino, e osservo la parete spoglia.
Eppure, qualcosa ci dovrò appendere, mi dico. È troppo vuota. Il vuoto è triste. È mancanza e disorientamento. E non mi piace.
Staremo a vedere, quale sarà la prossima immagine ispirante che eleggerò a divinità.
Quale idea indotta mi illuderò di onorare e servire.
Davanti a quale immaginetta o disegno accenderò la candelina e dirò la preghierina.
Dove sto andando, adesso, non lo saprei dire.
Accolgo assetata le piccole ispirazioni che mi animano.
E ricomincio dall’inizio. Dal basso.
Dal muschio e dai funghi.
Dalla terra. Dalle ossa.
***
Erano ormai alcuni mesi che volevo scrivere questo brano, che tuttavia ogni giorno cambia, si arricchisce, si chiarisce, si consolida, si colora di speranze o bestemmie, nel mio abbandono di ciò che è stato e nella ricerca spasmodica di ciò che è adesso e forse sarà.
Era da scrivere, lo dovevo fare. Per me stessa.
Ora posso lasciar andare questo lungo diario, pieno di quella me che, pur essendo sempre io, ha lasciato cadere dei pezzi e ora deve proseguire e voltare pagina.
Come un quaderno di carta, che prima o poi finisce, questa è la sua ultima pagina.
Il diario si chiude. Al suo interno un piccolo mondo passato.
Un nuovo diario, da qualche parte, verrà aperto.
La prima pagina ancora da scrivere.