lunedì 9 settembre 2024

A-thea

Per tanti anni, più della metà della mia vita, la Grande Madre è stata l’essenza del mio cammino. Mi accostavo ai suoi innumerevoli volti, li studiavo, li amavo moltissimo, eppure poi tornavo sempre e solo a lei. Quello spirito trascendente e immanente che sentivo come una madre immensa, un grembo d’amore e armonia. Per quanti anni ho vissuto alla ricerca di questo infinito abbraccio, non saprei nemmeno più dirlo. Certe volte l’ho sentito, e quelle volte sono capitate cose magiche.
Tuttavia, ogni cosa ha una fine. Anche se questa, di fine, non pensavo l’avrei mai scritta.
Troppe voci hanno parlato sopra il mio sentire, confondendolo nonostante i continui e testardi tentativi di rimanerci salda. Poi mi sono resa conto di qualcosa… io mi sentivo sempre capita, da lei. Sapevo che lei mi comprendeva, che conosceva i miei moti interiori, le mie esperienze, il mio vissuto. Sentivo il suo amore, la sua approvazione. Sentivo che era accanto a me. Anche quando camminavo in direzioni opposte e contrastanti rispetto ad altre. Rispetto a coloro che la onoravano in modi simili o estremamente diversi dai miei, e a loro volta, si sentivano costantemente approvate da lei.
Qualcosa ha iniziato a vacillare.
Se ognuna di noi, si sente sempre compresa e approvata, anche quando compie gesti o scelte contrastanti e talvolta discutibili, allora com’è possibile che nella realtà sia davvero così?
Poi il crollo.
Nella sofferenza, nel barcollare della mia verità quando tuttavia sapevo fosse vera, nella confusione, nel disorientamento, ho avuto bisogno di quella comprensione, di quel sostegno, di quell’approvazione. E in quel mentre, ho sentito e visto che proprio chi mi stava facendo male, come chi lo aveva fatto tante, tante volte prima di allora, si sentiva approvata, compresa, appoggiata. Dalla Madre.
Un velo è caduto dai miei occhi, e poco dopo, il vuoto.
Come potrebbe, una Madre, la stessa Madre, comprendere il mio dolore, l’ingiustizia subita, e sostenermi, e allo stesso tempo approvare colei che mi sta massacrando?
Io sono nel vero, mi ripetevo, la Madre sa.
Le stesse parole che si ripeteva chi stava dall’altra parte.

Vi è dunque una Madre in tutto questo, o siamo soltanto noi, che nel nostro bisogno di sentirci comprese, sostenute, approvate, ci convinciamo di esserlo niente meno che da una divinità?
Noi, che a volte crediamo addirittura di agire in nome suo, quando non stiamo facendo altro che assecondare i capricci del nostro ego.

Ripenso a un film di qualche sera fa, dove una donna, che non aveva fatto nulla di male, provava tuttavia un forte senso di colpa e ripeteva “prego che Dio mi perdoni” – quante volte l’abbiamo sentita.
Perché mai dovremmo sperare nel perdono di un’entità esterna quando siamo soltanto noi a doverci perdonare, o a renderci conto che non c’è nulla che deve essere perdonato? Fino a che punto proiettiamo all’esterno le nostre responsabilità e il nostro potere, aspettando che qualcuno faccia le cose al posto nostro? Siamo a tal punto scollegate da noi stesse da delegare la nostra stessa vita a una idea che noi stesse abbiamo creato?
Allo stesso tempo, però, siamo capaci di sentirci appoggiate e ne andiamo orgogliose.

Credo che in molti casi la religione sia una malattia.
E lo stadio più avanzato di questa malattia, porta capi di stato a compiere crimini inauditi, in nome della divinità da cui si sentono legittimati.
Eppure, in piccolo, e in modo innocuo o persino benefico, non stiamo facendo noi la stessa cosa?
C’è del vero in ciò che crediamo, o sono solo convincimenti di cui abbiamo bisogno per vivere bene?

L’ho odiata, la Madre.
Colei che amavo immensamente, l’ho detestata e l’ho disprezzata con tutta me stessa. Perché quando è crollata, non è rimasto più niente.
A-thea. Senza-dea.

Ora ripenso alla me stessa di nemmeno un anno fa, votata alla Madre, come una sacerdotessa mancata che pure a quel sacerdozio aveva dedicato la vita, e non la riconosco più. La guardo da lontano, mentre prega piena di fervore, perennemente commossa e ardente. Come una asceta o una martire. La vocazione che mi ha riempito la vita per così tanti anni è scomparsa, crollata insieme alla Madre che dà ragione a tutte – e a nessuna. O forse è cambiata – perché altrimenti, continuerei a sentire l’ardore, che tuttavia è orfano di ciò che lo aveva ispirato?
Anche io – come la mia amata Vanessa Ives – ho gettato il crocifisso nelle fiamme del camino, e osservo la parete spoglia.

Eppure, qualcosa ci dovrò appendere, mi dico. È troppo vuota. Il vuoto è triste. È mancanza e disorientamento. E non mi piace.
Staremo a vedere, quale sarà la prossima immagine ispirante che eleggerò a divinità.
Quale idea indotta mi illuderò di onorare e servire.
Davanti a quale immaginetta o disegno accenderò la candelina e dirò la preghierina.

Dove sto andando, adesso, non lo saprei dire.
Accolgo assetata le piccole ispirazioni che mi animano.
E ricomincio dall’inizio. Dal basso.
Dal muschio e dai funghi.
Dalla terra. Dalle ossa.

***

Erano ormai alcuni mesi che volevo scrivere questo brano, che tuttavia ogni giorno cambia, si arricchisce, si chiarisce, si consolida, si colora di speranze o bestemmie, nel mio abbandono di ciò che è stato e nella ricerca spasmodica di ciò che è adesso e forse sarà.
Era da scrivere, lo dovevo fare. Per me stessa.
Ora posso lasciar andare questo lungo diario, pieno di quella me che, pur essendo sempre io, ha lasciato cadere dei pezzi e ora deve proseguire e voltare pagina.

Come un quaderno di carta, che prima o poi finisce, questa è la sua ultima pagina.
Il diario si chiude. Al suo interno un piccolo mondo passato.
Un nuovo diario, da qualche parte, verrà aperto.
La prima pagina ancora da scrivere.

venerdì 14 giugno 2024

Giuramenti

Tanti anni fa feci un giuramento. Un giuramento segreto, accorato, assoluto, espresso con tutta me stessa. Ogni più piccola parte di me era presente in quelle parole, e un anello invisibile si impresse sul dito della mia anima.
Col passare degli anni, tuttavia, mi sono resa conto che ciò a cui avevo giurato era diverso da quello che avevo creduto. Quello a cui mi ero votata non rispondeva alla sua apparenza, e in parte non era nemmeno mai esistito.
Rendermi conto della verità e accettarla ha richiesto molti anni, ed è stata e sempre sarà una delle sofferenze più grandi della mia vita. Eppure mi sono rifiutata di arrendermi e di gettare tutto alle ortiche, ho raccolto i pezzi e li ho nascosti. Li ho protetti e mantenuti in vita, lontano dagli occhi di tutti. Li terrò in vita per il tempo in cui potranno vivere di nuovo, mi sono promessa. Come braci mai spente che rosseggiano nel buio.
Ciò nonostante, da allora il mio giuramento è rimasto orfano, e ha sofferto la mancanza di ciò che gli aveva dato vita. Ma la sua forza iniziale era tale da non permettergli di svanire nella nebbia dell’oblio. Un giuramento di questo genere non si esaurisce, né si corrompe. Come una stella, continua a brillare, anche dopo che la sua sostanza materiale ha smesso di esistere.
Ogni volta che mi ha richiamata a sé, ho bevuto il suo dolore, e l’ho raccolto e tenuto stretto al cuore, lì dove era nato. Se non esiste ciò che lo ha ispirato, mi sono detta, esisto io.
Esiste il cuore che lo ha espresso, la voce che lo ha pronunciato.
Ho cominciato a guarire il suo vuoto, riempiendolo dell’unica cosa reale che avessi, me stessa.
Fino a ricordare. Ho ricordato che ciò a cui avevo giurato, in verità, altri non era che la mia stessa anima.
Perché non era così necessaria e imprescindibile la via che avevo scelto per raggiungerla. Ciò che era necessario era solo e soltanto lei.
Lei, la mia salute, la nostra libertà.

Oggi guardo le rovine dietro di me, i percorsi abbandonati, le porte chiuse, i veli caduti, le divinità crollate – e non vi è giorno in cui dentro di me io non pianga quelle rovine.
Non è rimasto nulla. O quasi.
Sono rimasta io.
E sono qui, con tutta l’anima.
E sono luce, e forza,
e ali dispiegate nel vento.
***

Nutrice: la Colchide è lontana, di tuo marito non ti puoi fidare, del tuo potere non resta più nulla.
Medea: resta Medea. In lei c’è mare e terra, e ferro e fuoco, i fulmini e gli dei.
[…]
La sorte può sottrarmi ogni bene, non l’animo, mai.

Seneca, Medea

***
Illustrazione di Renia Metallinou

mercoledì 12 giugno 2024

Quando la superficie si increspa

Quante volte vediamo solo ciò che vogliamo vedere? Siamo convinte di ciò che crediamo sia vero e non riusciamo a spingere lo sguardo più in là.
Quante volte una vocina dentro di noi ci mette in guardia, ma non la ascoltiamo? Oppure il nostro occhio scorge un’ombra oscura e meschina, e immediatamente guardiamo altrove, perché non vogliamo credere a ciò che ci sembra di aver visto?
Così tutto è bello e perfetto e incantato, perché ci piace che sia così e vogliamo che così resti.

A volte però la superficie si increspa…
Una nota stride,
una maschera cade…
Quante volte facciamo finta di niente e proseguiamo per quella che crediamo sia la nostra strada, negando a noi stesse l’evidenza pur di non ammettere che ciò che abbiamo visto possa essere più vero di ciò che crediamo sia vero?
Io lo so bene, mi sono ingannata tante volte e a volte continuo a farlo, consapevolmente.
Ma vedo, e sento, e so. E quando ne ho voglia, e sono pronta a lasciare che tutto crolli, lo ammetto a me stessa.
Perché quando non vale più la pena di nascondermi sotto al comodo velo dell’illusione, perché ciò che vedo e sento e so è troppo grande, l’inganno non mi piace più. Ed ecco che cade e si infrange.
Spesso ciò che cela sono frammenti di inferno.
False corna, fumo, fiamme gelide e occhi neri.
Odore nauseante,
grida rauche e stonate,
ciechi seguaci che sbraitano e vomitano,
miasmi rivoltanti.

Amo troppo l’oscurità – quella sublime e raffinata,
per accettare di camminare laddove
striscia
chi parla di luce,
e non è in grado nemmeno di rispettare l’ombra.
Fotografia di Natalia Drepina