sabato 5 giugno 2021

Di Orixà e Piccole Gazzelle

In questi giorni mi sto immergendo nell’atmosfera a volte colorata e luminosa, a volte ombrosa e inquietante, delle tradizioni afro-brasiliane della Candomblé. Era da tempo che volevo approfondire questa ramificazione dell’animismo ma non avevo idea che fosse così bella, e soprattutto così vicina e simile a ciò che sento e vivo, nonostante la sua lontananza geografica e l’apparente diversità.
Le divinità afro-brasiliane, gli orixà – si pronuncia “orisha” – per quanto dotate/i di una mitologia propria, ovvero delle proprie storie di potere, sono entità che rappresentano la natura nel suo aspetto più puro e selvaggio. Così Yemanjà è si una orixà femminile rappresentata come donna – nel sincretismo cristiano diventa la Madonna – ma è il mare in se stesso, con i suoi fondali e le sue maree; e Oxum, orixà sensuale e bellissima, è l’acqua dolce, il fiume, ma anche il liquido amniotico che avvolge i bambini prima della loro nascita; Nanã Buruku, anziana inquietante che vive fra le lapidi dei cimiteri brasiliani, è signora della polvere e dell’acqua piovana che, a contatto con la terra diventa fango; e una delle mie preferite, Bécem, è la versione afro-brasiliana della regina dei serpenti e serpentessa lei stessa.
E poi c’è lei, la mia orixà preferita, quella che probabilmente, se vivessi in Brasile, sarebbe la mia orixà protettrice: Yansã – od Oyà – la regina del vento, e vento lei stessa. Lei è l’aria, per questo è sempre libera, indomita, ma anche facilmente irritabile fino a diventare molto aggressiva e violenta.

Non c’entra molto – o forse sì – ma tutte queste divinità di origine africana mi ricordano l’unica volta in cui sono stata in Africa, per quanto si trattasse solo di un’isola: Djerba.
Non ho un buon ricordo di quel viaggio, non era lì che avrei voluto essere. A differenza della maggior parte delle persone, a me il villaggio turistico metteva angoscia, e l’unica giornata in cui abbiamo visitato il paese con il mercato, ho passato la maggior parte del tempo a nascondermi, e a sopportare le proficue offerte di centinaia di cammelli rivolte a mio padre per comprarmi.
No, non era quello il mio posto. Eppure mi dispiace di non averla vissuta meglio, di non essere stata in grado di guardare oltre e di cercare la similitudine al di là della differenza. Del resto avevo solo 15 anni ed ero ancora troppo lontana dal cammino interiore che avrei intrapreso quattro anni dopo.
Un bellissimo ricordo, che collega il mio spirito a quella cultura però ce l’ho, ed è un ricordo molto caro. Lì ho ricevuto, un po’ per caso, uno dei miei primi nomi “totemici”, con il quale sono stata appellata per tutta la durata della permanenza.
Uno dei camerieri che lavoravano al ristorante era un ragazzo altissimo, magrissimo, e dalla pelle nerissima. La sua estrema gentilezza la ricordo ancora con affetto, una gentilezza non impostata, finta, calcolata. Una gentilezza d’anima, vera.
È stato lui a dirmi, parlando in francese e cercando di farsi capire, che gli ricordavo l’aspetto di una gazzella, una piccola gazzella. Così, in pochi minuti, ero diventata la Petite Gazelle.
Ed era bello, ogni giorno, sentire quel “Bonjour, Petite Gazelle”.
La piccola gazzella è così diventata uno dei primi animali sacri a cui mi sono sentita affine, anche se era tanto lontana dalle mie origini, in una terra che sentivo così diversa dalla mia – e anche se in realtà detesto correre.
E paradossalmente, quello è stato uno dei primi tasselli del mio percorso lungo le vie animiste femminili, che portano a percepire la non-separazione fra noi e la natura, ad accogliere la vera e propria identificazione con essa nelle sue svariate forme, soprattutto con quelle del regno animale, che guida e protegge, e talvolta permette di comprendere le proprie stesse indoli, le pulsioni naturali e certe parti del proprio carattere innato.

Ora, ripensandoci, mi tornano in mente le parole della Iyalorixà – la “sacerdotessa” della Candomblé – di cui parla l’autrice Marcella Punzo nel libro Le grandi madri del Brasile, quando dice che non siamo mai noi a scegliere le nostre vie e i percorsi che intraprendiamo. Crediamo di scegliere, ci ripetiamo “io scelgo”, ma in realtà, ancora prima di scegliere, siamo già state scelte.
Ciò che crediamo di scegliere, ci ha scelte ancora prima che lo sapessimo, e la nostra vera scelta consiste solo nell’accogliere ciò che ci ha scelte, e rispondere alla chiamata.
Lo stesso insegnamento l’ho ricevuto percorrendo la mia via di appartenenza, che pensavo non avesse nulla a che vedere con le tradizioni afro-brasiliane, ma che ora sento simile.
Forse perché più si cerca la sorgente della spiritualità, più si arriva allo stesso centro da cui ogni tradizione ha avuto inizio.

Tutto ciò che viviamo, tutto ciò che fa parte del nostro cammino, e che scegliamo consapevolmente per reale pulsione interiore, in realtà è ciò che ci ha già scelte. Sta a noi scoprire verso quali scenari questa scelta reciproca ci porta, e sta a noi raccogliere i frammenti di verità interiore che, disseminati nei posti più impensati, ci rivelano la nostra vera essenza, e ci ricordano la nostra origine.

***

Ora, da brava Petite Gazelle, innamorata dell’orixà del vento Yansã e delle case di Candomblé – i terreiros, ovvero i templi – istituite e gestite dalle donne, torno saltellando leggera alle mie letture e a quelle tradizioni che ho scelto di approfondire, ma che forse, in un certo senso, avevano deciso di scegliermi molto prima che lo sapessi.
Illustrazione di Rosina Becker do Valle

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