sabato 10 giugno 2023

Le donne nella Bibbia. La figlia di Jefte

Appunti di ricerca
Le donne nella Bibbia
La Figlia di Jefte


Da alcuni mesi mi sto dedicando allo studio delle donne presenti nella Bibbia, in particolare nell’Antico Testamento, e sto scoprendo poco a poco alcuni rari frammenti di sacro femminino non del tutto inaspettati. Oltre alla bellissima Jezabel, descritta chiaramente come una nemica sia perché regina, sacerdotessa e profetessa della dea madre, sia per via della sua spietatezza – del tutto simile se non inferiore a quella dimostrata dai profeti ebraici – vi sono altre donne, perlopiù ebraiche, che rivelano una forza e una saggezza che sembrano attingere direttamente a quel femminile sacro che prescinde qualsiasi religione e al contempo può emergere in ognuna di esse. Poiché appartiene alla donna e a nessun altro, uomo o dio che sia.
In certi casi inoltre, emergono fra le righe tradizioni e ritualità precedenti la religione monoteista, che restano degne di approfondimento. Fra le donne interessanti anche sotto questo punto di vista vi è una fanciulla senza nome, conosciuta semplicemente come la figlia di Jefte – o Iefte o Jephthah.

La sua storia ha inizio in un periodo in cui gli Israeliti erano oppressi dagli Ammoniti, ai quali erano stati consegnati da Yahweh poiché avevano di nuovo smesso di adorarlo, dedicandosi alle divinità pagane e ai loro culti.
Dopo essersi pentiti di aver abbandonato Yahweh, e averlo pregato di perdonarli, gli Israeliti cercarono un condottiero militare che li guidasse nella guerra contro gli Ammoniti. Scelsero Jefte, il Galaadita, che era capo di un gruppo di banditi, e questi, prima di partire per la battaglia, fece un voto a Yahweh: “Se tu consegnerai nelle mie mani gli Ammoniti, chiunque uscirà per primo dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io lo offrirò in olocausto.” (Gdc, 11, 30-31)
Il Libro dei Giudici prosegue così:
Quindi Jefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore li consegnò nelle sue mani. (…) Poi Jefte tornò a Mispa, a casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia, con tamburelli e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli né altre figlie. Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi”. Ella gli disse: “Padre mio, se hai dato la tua parola al Signore, fa’ di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici”. Poi disse al padre: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne”. Egli le rispose: “Va’!”, e la lasciò andare per due mesi. Ella se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli compì su di lei il voto che aveva fatto. Ella non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele questa usanza: le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Jefte il Galaadita, per quattro giorni ogni anno.” (Gdc, 11, 32-40)

Una nota presente nell’edizione corrente della Bibbia di Gerusalemme precisa che la parola “piangere” è talvolta tradotta con “cantare” o con “celebrare”, e aggiunge “il verbo ebraico lascia supporre che si tratta di canti funebri”.
La figlia di Jefte, quindi, accettando un destino non scelto da lei ma dal padre – del resto siamo in piena religione patriarcale – chiede soltanto una cosa: di poter errare per i monti per due mesi, piangendo, o forse cantando o celebrando, la sua verginità, insieme alle sue compagne.
Nel contesto della religione ebraica, precisa la nota al testo biblico, morire senza aver generato figli “era considerata una disgrazia e un disonore per una donna”, ma questa spiegazione non chiarisce del tutto la storia. Alcune interpretazioni vogliono che la figlia di Jefte non fosse stata uccisa, ma offerta a Yahweh perché lo servisse al suo tempio, dedicando a lui la sua verginità. Pertanto il suo pianto sarebbe stato rivolto proprio al suo restare vergine per sempre, non alla sua morte. Altri biblisti tuttavia affermano che il testo debba essere letto come scritto, e che eccessive interpretazioni o edulcorazioni lo altererebbero. Pertanto il sacrificio della figlia Jefte è da intendersi in senso letterale.
In ogni caso, ciò che appare più interessante è la richiesta della figlia di Jefte, il suo errare per i monti per due mesi con le sue compagne, forse portando con sé i tamburelli e danzando, per l’eterna verginità. Questo particolare infatti viene spiegato in questo modo:
Secondo alcuni “la storia della figlia di Jefte serviva a spiegare il costume dei quattro giorni passati ogni anno in montagna dalle figlie di Israele (…). Il rito sarebbe stato la rimanenza di un culto pagano di cui si erano dimenticate le origini’, il che rese necessaria l’invenzione di un “precedente” per spiegarne retroattivamente le cause.
(Cfr. Literary Guide to the Bible, 17; John Baldock, Le donne della Bibbia, pag. 109)

Questa antica tradizione vede quindi delle donne riunirsi da sole sulle montagne per quattro giorni ogni anno, a piangere o cantare, o celebrare la verginità femminile, forse guidate da una figura misteriosa, in seguito divenuta la giovane figlia di Jefte, oppure in onore a lei.
Fra gli studiosi vi è anche chi ipotizza che la storia della figlia di Jefte nasca sul mito di Ifigenia figlia di Agamennone, che venne offerta agli dèi da suo padre per sedare i venti durante la guerra di Troia. Il nome Ifi-genia potrebbe infatti essere all’origine di “figlia di Jefi, o Jefet”, quindi di “figlia di Jefte”, e la similitudine delle due vicende non è da sottovalutare. (Cfr. Filippo Villani, La figlia di Jefte. Studio biblico-storico, in Letture di famiglia, Vol. II, pag. 278)

Da queste poche ma significative informazioni sembra emergere un’usanza femminile antica, fatta di pianti, canti e danze al ritmo dei cembali, che risuonano fra le montagne; un sacrificio che potrebbe comportare una morte oppure una consacrazione al tempio di una divinità pagana prima, ebraica in seguito; e una fanciulla che forse proviene da tempi molto più remoti, che accetta il proprio destino e, in un modo o nell’altro, offre la sua vita per placare i venti o ristabilire la pace.
Un piccolo ma non trascurabile inizio per far riemergere un frammento di sacro femminino, nascosto eppure ancora intuibile.
Dipinto di Alexandre Cabanel

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Fonti bibliografiche parziali:
Baldock John, Le donne della Bibbia. Storie dimenticate di santità, sangue e intrighi, BUR Rizzoli, Milano 2019
La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 2009
La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma, 1962
Villani Filippo, La figlia di Jefte. Studio biblico-storico, in AA.VV. Letture di famiglia, Vol. II, Lloyd Austriaco, Trieste, 1853

Ricerca e appunti di Laura Rimola. Nessuna parte di questo testo può essere riprodotta o utilizzata in alcun modo e con alcun mezzo senza il permesso scritto dell’autrice e senza citare la fonte.

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