Soddisfatta del suo operato, la dea intendeva proseguire con la sua strage, e quando Ra cambiò idea e decise di interrompere la distruzione, salvando gli umani rimasti ancora in vita, Sekhmet non volle fermarsi. Allora Ra escogitò un piano, fece preparare 7000 giare di birra, alla quale fece aggiungere dell’ocra rossa a richiamare il colore del sangue – secondo alcuni studi si tratta più precisamente di birra o altra bevanda fermentata con l’aggiunta di mandragora o di polvere di ematite – e le versò laddove Sekhmet si sarebbe recata. La dea, scambiando la bevanda per sangue umano, la bevve tutta e si ubriacò. Allora la sua furia si dissolse nella sacra ebbrezza, e la dea tornò ad essere la gioiosa e gentile Hathor. La sua distruzione si interruppe e la vita riprese a scorrere. Da allora però, Ra si allontanò sul dorso della Vacca Celestiale, la grande dea cosmica Mehetueret, che da allora lo inghiotte ogni sera e lo ripartorisce ogni mattina, dando origine all’eterno susseguirsi del giorno e della notte.
Il Ritorno della Dea Distante, che dal suo aspetto distruttivo rappresentato dalla leonessa Sekhmet diviene nuovamente l’amorevole Hathor, viene festeggiato ogni anno, quando si verificano le inondazioni del Nilo a fertilizzare la terra, e descrive il ritorno della gioia e del benessere dopo un periodo di dolore e difficoltà.
Un mito che simbolicamente si adatta anche al ritorno a una sorta di età dell’oro interiore, ricondotta dalla presenza della dea della gioia, della bellezza, della musica e del piacere, dopo un periodo di dolorosa e triste lontananza.
Esistono alcune varianti di questo mito – a volte la dea Hathor-Sekhmet è sostituita dalla meno nota dea Tefnut – e fra queste, una in particolare è oltremodo ispirante.
In questa versione Hathor-Sekhmet o Tefnut, dopo un violento litigio con Ra, si allontana furiosa dall’Egitto, fermandosi in Nubia. A convincerla a tornare sarà il dio della luna, della saggezza e della scrittura Thoth, che riesce a placare la sua furia narrandole delle storie, delle favole, e intonando inni e canti.
In questa narrazione popolare, il ruolo del sapiente Thoth, “richiama la sua ieratica funzione di pacificatore della Dea ‘rabbiosa’, un ruolo espresso nel suo epiteto sehetep neseret, ‘colui che pacifica/propizia la fiamma divina’. In questo modo Thoth fa da mediatore tra il mortale e il divino, poiché l’esplosione di fuoco di queste Dee, chiamata neseret, forma una barriera o una sorta di velo fra questi due reami (...)”.
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Le favole, i canti e le storie del dio lunare dalla testa di ibis, il divino cantastorie Thoth, cullano la rabbia impetuosa della dea furente, la placano, la spengono, riportando la fiamma divina ad ardere pacificamente. La barriera di fuoco che crea separazione, contrasto e scontro fra il mondo mortale e quello divino, si assottiglia di nuovo e le due dimensioni possono tornare a convivere e comunicare in pace.
Questo potrebbe anche far pensare che vi sia una sorta di similitudine tra la sacra ebbrezza data dalle bevande fermentate, e l’ascolto di storie e inni che cullano e incantano, portando ad uno stato di lieve alterazione della coscienza, di apertura al magico.
Forse è anche per questo che Thoth è il dio della magia. La magia cantata, scritta, raccontata, sotto i raggi luminosi della luna.
La citazione è tratta dall’articolo di Edward P. Butler, The Book of the Celestial Cow: A Theological Interpretation, pag. 84. Ho consultato anche il libro di Carolyn Graves-Brown, Dancing for Hathor. Women in ancient Egypt, pagg. 169-170. Voglio però precisare che non mi sento di consigliare questo libro, in quanto, a mio personale parere, eccessivamente critico nei confronti delle teorie di Marija Gimbutas, dell’esistenza di una Dea Madre predinastica e scritto con un linguaggio che mi sembra poco utile al riscatto del femminile.
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