giovedì 5 agosto 2021

La Malattia che sconvolse il regno della Regina saggia e giusta

Il mondo in cui viviamo è quanto di più lontano ci possa essere dalla perfezione. Coloro che governano raramente sono considerabili onesti e assennati; al contrario, sono per la maggior parte corrotti, ipocriti e interessati solo al proprio tornaconto personale.
Eppure quanto è successo nell’ultimo anno è probabile che non sarebbe stato molto diverso nemmeno in un regno fiabesco, guidato da una regina saggia e giusta.
La natura dell’essere umano, infatti, è la stessa in ogni tempo e in ogni luogo, e persino nelle fiabe ha sempre mantenuto le proprie caratteristiche innate.

Ho voluto scrivere questa storia – uscita da sola, in poche ore – per raccontare la diffusione di una malattia sconosciuta in un regno tanto diverso dal nostro, quanto per certi versi simile e forse paragonabile.
È una di quelle storie che servono a me per prima, perché mi aiutano considerare la realtà con distacco e in contesti anche diversi da quello attuale, ma forse può servire anche a chi, nutrendo una sensibilità e una percezione delle cose simili alle mie, vi troverà, spero, qualche spunto di riflessione.

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La Malattia che sconvolse il regno della Regina saggia e giusta

C’era una volta un regno governato da una regina saggia e giusta, che viveva in un piccolo ma accogliente castello, vicino alle abitazioni del suo popolo e alla piazza nella quale si svolgeva un fiorente mercato, al quale si recavano mercanti provenienti da ogni parte della regione.
La vita scorreva tranquilla, con i suoi alti e bassi, ma sebbene ognuno nel regno vivesse una vita semplice e piena, vi era sempre chi era scontento e insoddisfatto.
La regina si prodigava nel dispensare al popolo tutto ciò di cui aveva bisogno, trattenendo per sé solo lo stretto necessario e assicurandosi che anche gli animali avessero sempre cibo in abbondanza.
Era molto amata dalla maggior parte delle sue genti, che la ascoltavano, si fidavano di lei, e la riempivano di elogi, e lei, che pure non amava soffermarsi sugli onori che le venivano rivolti, era lieta del loro affetto, che ricambiava calorosamente.
Un giorno di fine inverno, una terribile sciagura irruppe nel villaggio.
Dopo una giornata di mercato, nella quale molti forestieri si erano accalcati davanti ai banchi pieni di mercanzia, due fratelli tornarono a casa accusando malessere e una forte difficoltà a respirare.
Le medichesse del regno, che vivevano accanto al castello della regina, accorsero per tentare di capire quale male li affliggesse, e somministrarono loro tutte le cure che pensavano avrebbero alleviato la loro sofferenza. Ma a nulla valsero i loro medicamenti e la loro conoscenza, i due fratelli peggiorarono ora dopo ora, e alcuni giorni dopo morirono.
Di lì a poco, altri abitanti del villaggio cominciarono ad accusare gli stessi sintomi, compresa una delle medichesse che, più delle altre, si era prodigata nel tentativo di curare i primi affetti. E se qualcuno riuscì malamente a rimettersi in salute, gli altri morirono.
La medichessa malata, accudita amorevolmente dalle sue compagne, tentò a fatica, poiché il respiro le veniva meno, di descrivere accuratamente cosa sentisse, così che i suoi ultimi istanti di vita fossero utili alle altre per curare chi subiva il contagio, poiché, ormai era chiaro, una grave e sconosciuta epidemia si stava diffondendo nel regno, e la necessità di conoscerla per poterla curare era impellente.
Le medichesse, con spesse bende legate attorno alla bocca e al naso, per limitare gli umori emanati dal loro respiro e dalla loro parola, trascrissero i sintomi della loro amata compagna, fino all’ultimo battito del suo cuore. Poi, senza nemmeno il tempo di piangerla, cercarono ogni sorta di rimedio. Nessuno però sembrava funzionare, e giorno dopo giorno l’epidemia avanzava, con le sue febbri e i suoi tormenti.
La medichessa più anziana si recò allora dalla regina, che seguiva con apprensione tutto ciò che succedeva nel regno.
“È necessario che prendiate una decisione difficile”, le disse. “Non avete altra scelta. Dovete chiedere al popolo di non uscire dalle proprie case, e di adottare ogni mezzo che possa limitare il contagio. Altrimenti molti altri moriranno, e la malattia non potrà essere sconfitta.” La regina si lasciò ricadere sulla sedia, davanti al focolare spento, poiché la sua ancella più fidata languiva nel proprio letto in preda alle tossi.
Le lacrime rigarono il suo volto. Come poteva chiedere alle sue genti un simile sacrificio?
Eppure non poteva fare altro che ascoltare la medichessa, sperando che gli abitanti del villaggio, davanti alle perdite subite e nel timore di provocarne altre, accogliessero di buon grado la sua richiesta. Dopotutto, di fronte al dolore e alla morte, era ben poca cosa.
Per evitare che il popolo si riunisse nel cortile del castello, rischiando di moltiplicare il contagio, la regina inviò a ogni famiglia una lunga lettera, consegnata dal suo messaggero e chiusa dal sigillo regale.
La lettera chiedeva, con calma e allo stesso tempo con fermezza, di non uscire dalle proprie case, o di farlo solo in casi di estrema necessità, di purificarsi frequentemente con acqua di sorgente ed erbe medicinali, e di utilizzare bende attorno alla bocca e al naso, così che gli umori non venissero diffusi e respirati da altri.
Gli abitanti del regno deposero i propri attrezzi da lavoro, e seguirono ciò che la regina aveva disposto per proteggere la loro vita e per far sì che l’epidemia si estinguesse nel più breve tempo possibile.
Ascoltarono, e fecero quanto richiesto. Almeno in un primo momento.
Poco a poco, emersero infatti alcune voci discordanti, che si sovrapposero a quelle che cercavano di mantenere calma e armonia, fino a tentare di spegnerle. Queste voci denunciavano l’irregolarità delle richieste della regina, la sua mala fede, tanto da arrivare a definirla una crudele tiranna che, in accordo con le medichesse, ambiva a dare origine a un regno di schiavi obbedienti e privi di libertà.
Dapprima si trattò solo di voci isolate – che si esprimevano tutte nello stesso modo e ripetevano tutte le stesse parole, così che queste si imprimessero facilmente nelle menti più impressionabili – e vennero ascoltate solo da coloro che, in cuor proprio, avevano sempre provato astio o invidia per la regina e per il suo potere. Ma col tempo le voci crebbero anche fra i meno sospettabili, e diventando più forti portarono confusione, ribellione e frequenti episodi di violenza.
Più a lungo si protraeva il periodo che la regina aveva predisposto perché l’epidemia si estinguesse, più numerosi erano i dissidenti che, riunendosi fra loro in segreto, si fomentavano a vicenda e allo stesso tempo non permettevano ai contagi di esaurirsi, rendendo sempre più pesante, teso e ostile il clima nel regno.
Qualcuno iniziò ad affermare che l’epidemia non esisteva affatto, che era tutto un inganno tramato dalla regina, e che sarebbe stato solo l’inizio della schiavitù. E i più suggestionabili, i più spaventati e i più arrabbiati ci credettero.
Le buone medichesse, che sino a quel momento erano state onorate e trattate con ogni riguardo, vennero paragonate ad assassine assoggettate al potere regale, che invece di curare i malati provocavano loro la morte. E i più dissennati ci credettero.
La regina, che dopo aver seppellito la propria amata ancella tentava in tutti i modi di arginare l’epidemia, manteneva le ordinanze che avevano lo scopo di limitarne la diffusione, tenendola per quanto possibile sotto controllo, ma il suo cuore sanguinava nel doverlo fare, e la preoccupazione le attanagliava lo stomaco quando apprendeva delle interpretazioni distorte che venivano date alle sue azioni.
Nel frattempo le medichesse, alcune delle quali, nel curare gli affetti, avevano a loro volta contratto l’infezione ed erano morte, lavoravano senza tregua per creare una cura mai sperimentata prima, che prevenisse la malattia, poiché tutte quelle tentate sino a quel momento per curarla non erano state efficaci, o lo erano state solo in parte.
Ci vollero molti mesi, durante i quali la ribellione continuò a crescere, e anche coloro che nel regno tentavano di mantenere la calma e l’armonia, fecero sempre più fatica a sopportarne la tensione. Quando finalmente il medicamento che poteva prevenire la malattia fu pronto, l’opposizione era arrivata a tal punto che la medicina venne considerata un veleno, e in molti la rifiutarono.
Le medichesse, che avevano messo anima e corpo nella ricerca, si accasciarono esauste, con gli occhi velati di tristezza, e ricordando le compagne morte nel tentativo di curare i malati, piansero amaramente. Ma non si arresero. Estinguere l’epidemia era molto più importante di coloro che si opponevano al medicamento, e che oltretutto non facevano nulla per fermare il contagio. Pertanto, promisero che avrebbero fatto qualsiasi cosa per adempiere al loro sacro giuramento.
Consultarono la regina, e si decise che, per breve tempo, solo coloro che assumevano la medicina, e coloro che per problemi di salute non avevano la possibilità di assumerla, avrebbero potuto muoversi liberamente nel regno, tornando a una normalità che, tuttavia, appariva diversa da quella che avevano vissuto sino a poco tempo prima.
Questa ulteriore ordinanza inasprì gli oppositori, che raggruppati nel cortile del castello urlavano contro la privazione della propria libertà personale e accusavano la regina dei peggiori e più crudeli crimini.
E se coloro che, ormai immuni al contagio, facevano fatica a sostenere la presenza dei dissidenti, questi ultimi non risparmiavano ingiurie contro i primi, così che il popolo, ormai disgregato e in perenne contrasto, dimenticò il tempo in cui operava insieme per un fine comune: l’armonia e il benessere di ogni essere vivente.
L’armonia e il benessere di ogni essere vivente che la regina si era sempre preposta di mantenere nel proprio regno, e che anche in quel momento tentava con ogni mezzo di ristabilire.

Non è dato sapere quanto tempo occorse perché tutti i focolai della malattia venissero domati ed essa fosse definitivamente sconfitta, ma furono anni difficili, nei quali la regina dovette fare ricorso a tutto il suo coraggio per mantenere un’autorità ferma e severa che mai avrebbe voluto assumere nei confronti del suo popolo.
Il regno della buona regina, che sembrava destinato a durare a lungo, finì in breve tempo.
Dopo essersi assicurata che tutto fosse tornato alla normalità e che le sue genti stessero bene, abbandonò il castello insieme ad alcune ancelle e alla più anziana delle medichesse, e si ritirò in una semplice casa sulle rive di un lago isolato, dove visse nella quiete fino alla fine dei suoi giorni, certa di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per vincere quella battaglia.
Le altre medichesse, invece, rimasero nel regno a vegliare contro la malattia. Erano loro ad averla conosciuta e sconfitta per prime, e sebbene il loro contributo venisse ormai riconosciuto da pochi, e ci fosse ancora chi rivolgeva loro sguardi ostili, la loro conoscenza era troppo preziosa perché si perdesse.
Doveva essere tramandata a tutte coloro che, mosse dalla stessa vocazione, sarebbero venute dopo.

Quanto alle genti del popolo, coloro che avevano accettato i sacrifici come necessari, traendone insegnamento, ritrovarono presto pace e armonia; e coloro che si erano opposti rabbiosamente, senza ammettere di aver sbagliato, cercarono altri motivi per ribellarsi, oppure ne inventarono di nuovi.
Qualcuno però, di fronte all’evidenza della realtà, vide ciò che sino a quel momento aveva rifiutato di vedere, e comprendendo, smise finalmente di credere alle menzogne.

***

Questo è ciò che la regina disse alle sue ancelle, nel giorno in cui l’epidemia ebbe inizio.

Ancelle mie,
tempi duri ci aspettano, nei quali dovremo fare molti sacrifici, e praticare a lungo l’arte della pazienza.
La malattia ci ha colte impreparate, porterà morte e separazione, e molto tempo passerà prima che essa diventi solo un lontano ricordo.
In questo tempo, vegliamo.
Manteniamo alta la fiamma che illumina l’oscurità. E quando qualcuna di noi cadrà nel buio, e vedrà la propria fiamma affievolirsi, prestiamole la nostra, e aiutiamola a rialzarsi.
Manteniamo l’armonia nel caos,
il silenzio nel trambusto,
la calma nel conflitto.
Portiamo messaggi dettati dall’esperienza della realtà, così che non siano le menzogne di coloro che la realtà la temono e la rifiutano ad avere il sopravvento.
Coloro che tenteranno di fare del bene, e rischieranno la loro vita per gli altri, verranno considerate portatrici di sciagure.
Coloro che diffonderanno falsità e confusione, verranno considerati saggi, e saranno creduti.
Prendendomi cura delle mie genti, verrò reputata una tiranna.
Per proteggere la loro libertà futura, sarò accusata di renderle schiave.
Il mio impegno sarà riconosciuto da pochi, il mio regno sarà presto dimenticato.
Ma noi ricorderemo,
in ogni momento ricorderemo il nostro ruolo,
e sapremo che abbiamo fatto del nostro meglio.

Abbiate coraggio, ancelle mie,
anche quando coloro che sentivate sorelle si riveleranno nemiche, e vi tratteranno con ostilità.
E quando vi sentirete sole e incomprese, sappiate che io sono con voi.
Combatto al vostro fianco, vi porgo la mia fiamma,
e prendendoci per mano ritroveremo l’armonia, il silenzio, la calma.

Abbiate coraggio, ancelle mie,
anche se pochi, o nessuno, comprenderà il nostro operare,
anche quando la nostra voce e i nostri gesti verranno distorti.
Tenete duro, poiché la strada intrapresa è quella giusta.
Di questo non dovete mai dubitare.

Usciremo dall’oscurità,
e quando il tempo della guarigione sarà giunto per tutti,
accoglieremo la nuova alba,
e nella sua luce potremo rinascere.


***

Racconto di Laura Violet Rimola. Nessuna parte di questo testo può essere condivisa, riprodotta o utilizzata in alcun modo e con alcun mezzo senza il permesso dell'autrice.

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