lunedì 29 giugno 2020

Quella prudenza che dà fastidio

Ognuno è libero di credere o non credere in ciò che vuole, di fare o non fare ciò che vuole. È libero, ma solo fino a dove la sua libertà non rischia di mettere in pericolo la salute e la libertà degli altri.
Vedere certe fotografie e certi atteggiamenti, sin dai primi giorni in cui è stato possibile incontrarsi di nuovo, è stato dapprima disorientante – ho creduto di abitare un mondo diverso, in un tempo diverso – poi sconcertante, e ho provato molti sentimenti spiacevoli: nervosismo, rabbia, certe volte disgusto, e infine la rassegnazione che ha accompagnato il lasciar andare queste persone fuori dalla mia vita.
Ho sentito morire il rispetto, la stima, in certi casi l’affetto sincero che provavo per loro, e non ho potuto fare altro che lasciarle indietro, come sto facendo anche adesso.
Perché non riesco a rispettare chi non rispetta me, chi amo, e tutti gli altri.
Ma i comportamenti volutamente sconsiderati non bastano. Tante, troppe persone che rifiutano la situazione attuale e si sono gettate a capofitto nel negazionismo, o nel delirio new-age, sono arrivate a ridicolizzare e insultare chi semplicemente accetta e segue quelle poche e semplici regole che non costano niente e salvano vite.
La prudenza ha iniziato a dare fastidio, a diventare un problema, mentre il mondo continua a morire.
Non so quale sia il vero motivo per cui la cura, la premura, il rispetto con cui ci si rapporta con gli altri, abbiano iniziato ad essere così intollerabili.
Essere prudenti non è una richiesta, è un dovere. Ma il concetto non perviene. E inoltre crea disagio.
Ci si rivolge agli altri con il tono di chi la sa lunga, preoccupandosi della loro paura, del loro panico, del loro male di vivere, e lo si fa ciecamente. Si è tanto convinti quanto ciechi, non si chiede se ciò che si sta dicendo sia vero. E non lo è quasi mai. Così si dà buca a un altro appuntamento con la realtà, e si continua a vivere nelle proprie illusioni.
Eppure è facile capire che non sono la paura o il panico a muovere chi si comporta in modo prudente, ma è l’amore che si prova per chi si ha accanto.
La prudenza è amore.
Prendersi cura è amore.
Proteggere è amore.

E non costa niente, anzi, è un gesto che reca piacere, anche quando è scomodo.
Bisognerebbe rendersene conto, e bisognerebbe farlo prima di mettere in pericolo gli altri con il proprio esempio sbagliato, sconsiderato, irresponsabile e, spesso, strafottente.
È facile negare quando non si vive in prima persona ciò che ci accade intorno. Si è molto fortunati e non ci si rende conto. Ma tante persone non sono state e non sono così fortunate. E forse bisognerebbe essere più grati per questa fortuna, e fare in modo che non si volti dall’altra parte, stanca di essere continuamente sfidata e misconosciuta.

Ognuno è libero di credere o non credere in ciò che vuole, di fare o non fare ciò che vuole.
E io sono libera di scegliere chi portare avanti nella mia vita e chi lasciare indietro.
Sono libera di accogliere il biasimo che mi sorge spontaneo davanti all’arroganza, il fastidio che mi suscitano la spavalderia, la noncuranza, l’irresponsabilità, l’ostentazione della propria mancanza di rispetto.
Davanti a certe immagini provo la sensazione di camminare su un sentiero troppo stretto che si affaccia sull’abisso. Cadere, però, non è un rischio che corro io, ma chi in quelle immagini è ritratto.
E ognuno è libero di fare anche questo, di camminare accanto all’abisso con una benda sugli occhi, senza riconoscere la fortuna che ha avuto e che continua ad avere nel non essere caduto e nel non aver tirato dietro di sé anche chi afferma di amare.

Da parte mia, continuerò a preferire la prudenza alla sfrontatezza, anche se inconsapevole.
Continuerò a prediligere la protezione all’irresponsabilità.
Continuerò a stimare chi agisce con amore verso chi ha vicino.
Continuerò a fare attenzione a ciò che scrivo, per non dare un esempio sconsiderato e rischioso per chi mi legge.
Continuerò a non avere alcuna paura, sorvolando su chi si preoccupa per il mio “terrore”, invece di preoccuparsi del proprio infantilismo.
Continuerò a portare la mia mascherina colorata, in tinta con i miei vestiti, trasformando il dovere in un gioco, così che il suo peso si alleggerisca; anche se c’è chi per questo mi definisce “lobotomizzata”.
Continuerò anche a rispettare chi non rispetta me, né nessun altro.
Continuerò a praticare l’amore, nella cura e nella premura, anche quando sarò stanca.
E continuerò a farlo col sorriso sulle labbra, anche se è nascosto e non si vede.

E quando tutto questo sarà passato, mi guarderò indietro e, ancora una volta, sarò in pace con me stessa e con il mondo nel quale ho deciso di nascere, e di crescere.
Illustrazione di Anastasia Suvorova

giovedì 18 giugno 2020

Sacerdotesse e semplici Donne in Cammino

Sono sempre stata così innamorata della figura delle antiche sacerdotesse, dai loro reali poteri sottili, dal loro ruolo sacro nelle società antiche, che non ho mai accettato né di intraprendere alcun percorso moderno precostituito, per me inadatto, che pretendesse di portarmi a diventare qualcosa che, pur conservandone il nome, non corrisponde affatto a ciò che loro erano e sono per me, né tanto meno di assumerne il titolo a mio piacimento. Il valore che dò alla parola sacerdotessa è per me troppo grande, troppo nobile, e ho sempre saputo che non sarei stata degna di farlo mio. Almeno, non finché fossi stata incapace di squarciare veramente le nebbie per volare oltre di esse e conoscere la dimensione divina che nascondono.
So che per molte persone oggi questa parola ha un altro significato, più semplice e “alla portata di tutte”, ma non è così per me, né lo sarà mai. A malincuore ho messo da parte questo titolo, molto più grande di me, ma al contempo non ho potuto fare a meno di dare forma alla mia vocazione. Ho iniziato a dedicare la mia vita, in ogni suo giorno, a tessere il sacro, a creare qualcosa che potesse avvicinarsi al sacro, a raccogliere i frammenti di sacro, sparsi in antiche tradizioni, racconti mitologici e fiabe, cercando di farli conoscere attraverso i miei “templi virtuali”, la carta stampata, le mie parole. E li ho vissuti visceralmente nella mia casa, nel mio corpo.
Sacerdotessa etimologicamente è colei che, resasi consapevolmente sacra – ovvero avvinta alla Madre, alla amorevole Sorgente del Tutto – dona cose sacre.
Io non sono questo, per quanto vorrei esserlo, perché non basta volere e credere di essere, bisogna essere davvero, e per essere è necessario passare attraverso prove iniziatiche e misteri travolgenti ed estremamente trasformativi. E io non li ho potuti vivere fino in fondo. Ne sono cosciente, e accetto di essere solo ciò che è vero che sono.
Come diceva Platone: “Sono in molti a portare il tirso, ma pochi i bacchoi”.
Io ho rinunciato a quel falso tirso, a tanto ego, e ho cercato di deporre ornamenti e di spogliarmi, piuttosto che di vestirmi di tutto punto e ornarmi. E non rimpiango nulla, perché so di essere nella mia verità.

Sono passati più di venti anni da quando ho ricevuto la mia chiamata e ho sentito la mia vocazione a percorrere le antiche vie femminili, e nonostante le cadute, non c’è stato un solo giorno in cui io non abbia camminato quella strada con tutta me stessa.
Ora sono qui, seduta come sempre, a vivere l’ispirazione costante che mi dona questo percorso, che è inscindibile da me, e mentre sorseggio piano il mio bollente infuso di zenzero, leggo sull’etichetta della bustina queste parole:

Communicate sacredness,
build it, share it and spread it
.”

(“Comunica la sacralità,
costruiscila, condividila, diffondila.”)

Sorrido. Perché non è solo ciò che sono, ma è anche ciò che faccio, ogni giorno, da tanto, tanto tempo.
E anche se certe volte sento un profondo struggimento, un’ondata di tristezza che mi riempie gli occhi di lacrime, perché non posso e non riesco a realizzare quello che per me è essere una sacerdotessa, vado avanti e resto fedele a ciò che sono: una giovane donna sul cammino della Grande Madre, piena di amore per Lei e di voglia e bisogno di imparare.
E continuo a fare ciò che sono nata e vivo per fare.

E se un giorno, quando e se passerò oltre quel velo di nebbia, guardandomi indietro mi renderò conto che, dopotutto qualche volta sacerdotessa lo sono stata per davvero, allora forse sarò molto felice… o forse semplicemente non me ne importerà nulla.
Perché quando si è davvero avvinte alla Madre niente altro ha importanza e il bisogno di identificazione non esiste più.
Lei è all’inizio, è alla fine, e nel dissolvimento di ogni desiderio.

giovedì 11 giugno 2020

Profumi di resine lontane

Studiando i diversi tipi di incenso, la provenienza e la raccolta, sono profondamente affascinata dalla Namibia, una regione dell’Africa nella quale gli alberi rilasciano spontaneamente le loro resine, senza bisogno di alcuna incisione nella corteccia, producendone in grande abbondanza. La resina è raccolta tradizionalmente dalle donne Himba, che in un solo giorno ne prelevano a sufficienza per un anno intero.
Immagino i loro volti bruniti, le loro vesti colorate ed eleganti, mentre appoggiano le mani dalle lunghe dita sui tronchi degli alberi, fra le dune color ruggine, immerse nei profumi che esalano naturalmente dalle piante.
La loro resina, la utilizzano in molti modi, e loro sono solite scioglierla insieme a burro e ocra rossa, per poi spalmarla, come unguento profumatissimo, su tutto il corpo.
Quanta bellezza nella differenziazione della natura, quanta ricchezza nella diversità delle culture.
Ogni cultura ha il proprio paesaggio, le proprie sembianze, il proprio colore, i propri profumi. Canti e racconti e usanze diverse. E in origine, un’armonia condivisa che univa tutta la terra.
Sogno notti stellate profumate d’ambra e mirra, e fra un sogno e l’altro torno ai miei studi. Torno ad esalare a pieni polmoni racconti balsamici e odorose tradizioni.
Torno alle donne che raccolgono gocce dorate trasudate dalle cortecce accaldate, e mi sembra quasi di conoscerle. Nell’anima siamo simili.

Fremo all’idea di bruciare qualcuno di quei ricchi granelli di resina Omumbiri che, ora so, hanno raccolto loro.
E lasciarmi avvolgere dalle stesse volute di fumo, perdendomi in quei profumi che loro ben conoscono.

lunedì 8 giugno 2020

Le Armi della Bellezza

Studiando le tradizioni della pianta di maggiorana nel mondo antico, mi sono soffermata molto su ciò che ne scrisse Lucrezio nel suo De rerum natura, alla fine del capitoletto dedicato alle differenziazioni della natura. Soprattutto mi hanno colpita le interpretazioni che ne sono state fatte, nelle quali ho ritrovato una grande verità, con la quale in molte/i ci stiamo confrontando in modo costante negli ultimi anni.
Traggo il brano dal mio articolo, con la citazione completa di Lucrezio, e la sua breve interpretazione:

“Era risaputo che i porci temono e fuggono la maggiorana, disturbati dal suo intenso e raffinato profumo, poiché lo percepiscono come un fetore insopportabile. Scriveva infatti Lucrezio nel suo De rerum natura: “Denique amaracinum fugitat sus et timet omne unguentum: nam saetigeris subus acre venenumst, quod nos interdum tamquam recreare videtur. At contra nobis caenum taeterrima cum sit spurcities, eadem subus haec iucunda videtur, insatiabiliter toti ut volvantur ibidem.” – “L’amaracino – la maggiorana – è evitato dal maiale, che teme gli unguenti tutti; e infatti ai setolosi maiali questo è acre veleno, ciò che noi, alle volte, sembra come chiamare alla vita. Al contrario, mentre il fango è per noi la più orrenda sporcizia, questo stesso appar bello ai maiali, così che si rigirano proprio lì, senza mai averne abbastanza.”
Il senso di questa differenziazione della natura, in origine priva di interpretazioni, ha suggerito metaforicamente che “coloro che trovano piacere nelle cose immonde, avvertono quelle belle, pure e oneste come insopportabili e nauseabonde” (*), e in tal senso la maggiorana è stata considerata la benefica pianta che respinge e dissipa volgarità, rozzezza e ignoranza col potere della bellezza.”

Al di là della simbologia della maggiorana in sé, questa simbologia è estremamente chiara e realistica, e in un certo senso anche rincuorante, perché dimostra che anche quando sembra di essere sconfitte, in realtà la bellezza, prima o poi, vince comunque.

Coloro che restano radicate nella bellezza – con le dovute scivolate sul fango degli altri, dato che non è semplice non cadere quando si è circondate di caotico lerciume – perché questa è la loro indole e la loro più alta aspirazione, non possono fare a meno di continuare a lottare, come combattenti bianche armate di bellezza.
E coloro che amano tanto la sporcizia, l’artificialità, la rozzezza, ovvero il fango – non inteso come terra feconda amata dai cari maiali, creature sacre della Madre, ma come lordura interiore – e fanno dell’ignoranza il proprio stendardo, continueranno comunque a cercarli, a crearli nella propria vita e in quella degli altri, e a sguazzarci dentro.
Eppure proprio attraverso il potere repellente, insopportabile, pestilenziale, che la vera bellezza ha su certe persone, queste verranno allontanate comunque, verranno demolite e sconfitte.
Anche laddove cercheranno di distruggere la bellezza con la violenza, anche laddove crederanno di esserci riuscite, non ci riusciranno. Perché la bellezza sopravvive comunque, e continuerà a nascere e crescere spontaneamente, come natura vuole.

L’essere umano guasto e il suo fango vivono con la data di scadenza stampata sulla fronte. Lui si crede grande e potente, ma è piccolo, povero e senza valore.

Invece, la bellezza è una verità adamantina e immortale.
E le combattenti bianche lo sanno. Per questo la scelgono sempre.
Lavano le loro ferite con il suo balsamo rigenerante.
Brandiscono la spada forgiata con i suoi luminosi metalli.
Scagliano affilate frecce che squarciano il buio.
La loro corazza è tessuta di lini sottili quanto impenetrabili.
E anche quando cadono, e soffrono, e muoiono, tornano sempre nel grembo della bellezza e in esso riposano, e rinascono. E tornano per combattere ancora.
Niente e nessuno potrà mai sconfiggerle.
Illustrazione di Anastasia Suvorova

* Cfr. Lucrezio, De rerum natura, Libro VI, 973-975; e Carlo Lapucci e Anna Maria Antoni, La simbologia delle piante, pagg. 251-252.
Brano tratto dal mio articolo Maggiorana, pubblicato il 7 Giugno 2020 su il Tempio della Ninfa.

martedì 2 giugno 2020

Là dove riposa il Sogno

Ieri sono tornata in un luogo a me caro. Ho fermato la macchina dopo una breve salita tortuosa, e sono scesa ad ascoltare il canto degli uccelli, lo stormire delle foglie nel vento fresco, il suono argentino del ruscello. In questo luogo c’è una casetta, per adesso una semplice stalla, ma qualche anno fa, quando l’ho “incontrata”, per la prima volta ho visto ciò che sarebbe potuta diventare, e per la prima volta ho riconosciuto in essa tutto ciò che ho sempre sognato.
È la prima casa che potrebbe diventare perfetta, quella che si adatta naturalmente a ogni fotografia che ho raccolto in molti anni, quella che ogni dipinto su cui ho tanto fantasticato, potrebbe ritrarre.
Così ogni tanto torno a vederla, controllo che il cartello della vendita sia sempre lì, al suo posto, e aspetto di potermi permettere di ricostruirla, sasso dopo sasso, mattone dopo mattone, per trasformarla nel sogno che ho in cuore da sempre.

Se poi spiccherò il volo e poserò le mie ali in altri paesi, vicini o lontani, e troverò altrove la mia realtà, la accoglierò a braccia aperte. Ma se questo non accadrà, e ogni volta non vi sarà luogo che sia per me casa come casa mia, allora tornerò sempre qui… e saprò che quella, e nessun altra, sarà la mia realtà.
Il luogo dove l’antica Magia che porto dentro, e che nonostante tutto non mi ha mai abbandonata, potrà ricominciare a vivere, a vivere veramente, portando gioia non solo a me, ma anche a coloro che con me, qualche volta, la condivideranno.

Per ora aspetto, e ricordo la sensazione che provo ogni volta che raggiungo quel posto.
C’è un modo per definirla, l’ho sentito ieri molto chiaramente: “calma luminosa”.
La mia Casa della Calma Luminosa è sempre lì… e finché resterà lì il sogno continuerà a vivere.
Fino a quando, forse, sarò pronta a realizzarlo.
Illustrazione di Kass Reich