Sono sempre stata così innamorata della figura delle antiche sacerdotesse, dai loro reali poteri sottili, dal loro ruolo sacro nelle società antiche, che non ho mai accettato né di intraprendere alcun percorso moderno precostituito, per me inadatto, che pretendesse di portarmi a diventare qualcosa che, pur conservandone il nome, non corrisponde affatto a ciò che loro erano e sono per me, né tanto meno di assumerne il titolo a mio piacimento. Il valore che dò alla parola sacerdotessa è per me troppo grande, troppo nobile, e ho sempre saputo che non sarei stata degna di farlo mio. Almeno, non finché fossi stata incapace di squarciare veramente le nebbie per volare oltre di esse e conoscere la dimensione divina che nascondono.
So che per molte persone oggi questa parola ha un altro significato, più semplice e “alla portata di tutte”, ma non è così per me, né lo sarà mai.
A malincuore ho messo da parte questo titolo, molto più grande di me, ma al contempo non ho potuto fare a meno di dare forma alla mia vocazione. Ho iniziato a dedicare la mia vita, in ogni suo giorno, a tessere il sacro, a creare qualcosa che potesse avvicinarsi al sacro, a raccogliere i frammenti di sacro, sparsi in antiche tradizioni, racconti mitologici e fiabe, cercando di farli conoscere attraverso i miei “templi virtuali”, la carta stampata, le mie parole. E li ho vissuti visceralmente nella mia casa, nel mio corpo.
Sacerdotessa etimologicamente è colei che, resasi consapevolmente sacra – ovvero avvinta alla Madre, alla amorevole Sorgente del Tutto – dona cose sacre.
Io non sono questo, per quanto vorrei esserlo, perché non basta volere e credere di essere, bisogna essere davvero, e per essere è necessario passare attraverso prove iniziatiche e misteri travolgenti ed estremamente trasformativi. E io non li ho potuti vivere fino in fondo. Ne sono cosciente, e accetto di essere solo ciò che è vero che sono.
Come diceva Platone: “Sono in molti a portare il tirso, ma pochi i bacchoi”.
Io ho rinunciato a quel falso tirso, a tanto ego, e ho cercato di deporre ornamenti e di spogliarmi, piuttosto che di vestirmi di tutto punto e ornarmi. E non rimpiango nulla, perché so di essere nella mia verità.
Sono passati più di venti anni da quando ho ricevuto la mia chiamata e ho sentito la mia vocazione a percorrere le antiche vie femminili, e nonostante le cadute, non c’è stato un solo giorno in cui io non abbia camminato quella strada con tutta me stessa.
Ora sono qui, seduta come sempre, a vivere l’ispirazione costante che mi dona questo percorso, che è inscindibile da me, e mentre sorseggio piano il mio bollente infuso di zenzero, leggo sull’etichetta della bustina queste parole:
“Communicate sacredness,
build it, share it and spread it.”
(“Comunica la sacralità,
costruiscila, condividila, diffondila.”)
Sorrido. Perché non è solo ciò che sono, ma è anche ciò che faccio, ogni giorno, da tanto, tanto tempo.
E anche se certe volte sento un profondo struggimento, un’ondata di tristezza che mi riempie gli occhi di lacrime, perché non posso e non riesco a realizzare quello che per me è essere una sacerdotessa, vado avanti e resto fedele a ciò che sono: una giovane donna sul cammino della Grande Madre, piena di amore per Lei e di voglia e bisogno di imparare.
E continuo a fare ciò che sono nata e vivo per fare.
E se un giorno, quando e se passerò oltre quel velo di nebbia, guardandomi indietro mi renderò conto che, dopotutto qualche volta sacerdotessa lo sono stata per davvero, allora forse sarò molto felice… o forse semplicemente non me ne importerà nulla.
Perché quando si è davvero avvinte alla Madre niente altro ha importanza e il bisogno di identificazione non esiste più.
Lei è all’inizio, è alla fine, e nel dissolvimento di ogni desiderio.
Nessun commento:
Posta un commento
Lasciami un pensiero
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.