lunedì 14 giugno 2021

Lo scopo dell’anima e le entità luminose oltre la soglia

Ogni anima prende forma e nasce nel mondo con uno scopo, fosse anche quello di incominciare, dal basso, un lungo cammino di crescita che tende sempre verso l’alto, verso una dimensione interiore di armonia, di coscienza risvegliata, di ricongiunzione cosciente con la materna Sorgente divina, e quindi di collaborazione con essa, nel comune scopo di creare bellezza e favorire la crescita di chi ci cammina accanto.
Ho raggiunto questa consapevolezza in tanto tempo, ed è una delle poche, pochissime cose nelle quali nutro assoluta fiducia, perché credo facciano parte di quella verità assoluta, che prescinde da ogni piccola e caduca verità personale.
Diverse persone che sono state in punto di morte per poi tornare alla vita, hanno raccontato di aver visto una grande luce amorevole, e di essere entrate in un incantevole giardino, in un frutteto, in un campo fiorito, o comunque in un luogo naturale dalla bellezza indescrivibile, nel quale sono state accolte e accompagnate per un breve tratto da una o più entità luminose. Spesso sono state queste entità luminose ad aver incoraggiato le loro anime a tornare nel proprio corpo, perché che non era ancora il momento di lasciarlo definitivamente. Naturalmente, non si conosce cosa abbiano detto e dove abbiano condotto quelle anime che non sono più tornate in vita per raccontarlo.
Queste entità vengono chiamate in modi diversi a seconda delle religioni – tutti nomi dai quali preferisco discostarmi – ma chi le ha incontrate ha parlato di presenze pregne di un grande amore, che portano abiti – se così si può dire – di colore bianco e che emanano luce e pace.
Mi chiedo chi possano essere, se siano frammenti della Sorgente materna, raggi emanati da essa che prendono forma per guidare le anime che sono appena giunte nell’altromondo, o magari anime loro stesse, che avendo vissuto numerose vite e avendo completato il loro percorso, si sono ricongiunte con la Sorgente, e che ora collaborano con essa al di là del velo. E dopotutto, potrebbero essere entrambe le cose.
Forse è di loro che parlano molte leggende e fiabe, nelle quali entità benefiche, spesso femminili, compaiono nei luoghi liminali, laddove il velo si assottiglia, per offrire consigli e doni a coloro che, alle prese con la vita incarnata, ne hanno necessità. Forse sono loro che certe volte avvertono prima che stia per succedere qualcosa di brutto, così che si possa evitarlo.
O forse sono semplicemente entità guardiane della soglia, che si incontrano nella morte, e che accolgono, abbracciano, accompagnano verso la Sorgente – così che le anime appena giunte possano ritrovarla e riposare nel suo grembo – oppure invitano a tornare giù, nel corpo ancora capace di contenerle, perché proseguano sulla terra il percorso interrotto per il tempo necessario.

E forse sono loro che, accogliendo coloro che, nate e nati sulla terra con uno scopo, ne considerano insieme l’andamento e la realizzazione.
Ed è proprio questo che spesso mi chiedo, quando perdo la rotta e mi areno sui cigli di strade poco battute. Quando le incontrerò, quando mi accoglieranno oltre il velo, sulla soglia del grande frutteto, sarò abbastanza soddisfatta del modo in cui ho provato a comprendere e realizzare lo scopo della mia anima durante la mia vita? Con questo corpo imperfetto, con questa mente fervida, con questo nome, sarò stata abbastanza brava a manifestare ciò che la mia anima si era preposta?
Vorrei incontrare le luminose guardiane ed essere certa di aver fatto tutto ciò che era in mio potere fare. Sarà possibile?
Di certo, è sempre possibile fare di più, almeno un pochino di più. Di certo molto tempo è stato sprecato ad inseguire illusioni, a nutrire rancori, a lenire ferite… e pur tuttavia anche questo fa parte della vita, del percorso, e quindi della vera crescita.
Ciò che spero con tutta me stessa, è di poterle guardare serenamente, di lasciarmi guidare da loro nella pace a cui conducono, in pace io stessa. In pace nell’anima, e in pace con questa piccola Laura che vive qui e ora, e che con tutte le sue difficoltà, sta comunque cercando di fare del suo meglio.

***

Ogni giorno è quello giusto, per prendere in mano le redini della propria vita e, finalmente, incominciare a seguire la via dell’anima.
Illustrazione di Nastya Kaganovich

domenica 6 giugno 2021

La Danza di Omolu e Iansã

Le mie letture
Le grandi madri del Brasile
La danza di Omolu e Iansã


Aprite il cuore e ascoltate questa bellissima storia…

“(…) Un giorno Iansã, insieme ad Ogun, andò in soccorso di Omolu. Era festa e tutte le divinità stavano danzando, tranne Omolu timidamente fermo sulla porta. Ogun allora chiese a Nanã, dea madre di Omolu:
“Perché mio fratello sta lì fuori e non viene a danzare?”
Nanã gli spiegò che lui aveva paura di apparire in pubblico a causa delle pustole. Ogun decise di aiutarlo: lo portò nella foresta e gli tessé rapidamente un vestito di fibre. Omolu, così coperto, trovò il coraggio di andare alla festa e danzò in mezzo alla sala, cantando di Ogun che lo aveva portato nella foresta per vestirlo. Nessuno però voleva danzare con lui, perché tutti pensavano di sapere cosa si nascondesse sotto quei tessuti di fibre. Solo Iansã, dea altera e coraggiosa, decise di accompagnarlo: danzò con lui e il turbine dei venti della dea alzò le vesti di Omolu, cosicché tutti i presenti videro con meraviglia che sotto quei vestiti c’erano il corpo e il volto di un uomo bellissimo, senza alcuna imperfezione. In ricompensa del suo gesto, Iansã ebbe il potere di regnare sugli Egùn, spiriti degli antenati, perché Omolu domina e conduce la forza di quegli spiriti, e si dice che sia sempre seguito da una corte di Egùn. Ma lui, da quel giorno, danzò sempre da solo.”

“Quando (…) Iansã, il cui elemento è l’aria, decide di accompagnarlo nella danza, Omolu in compagnia della dea si rivela bellissimo. Iansã è coraggiosa come Ogun ed entrambi lo aiutano a “entrare nella danza della vita”, a non chiudersi nel dolore e nella vergogna. Il vento leggero e il coraggio di Iansã trasformano la timidezza e la paura di Omolu, “paura dei mali del mondo”, e risolvono la sua malattia: il fuoco [elemento di Omolu, insieme alla terra] perde così le sue caratteristiche materiali più spaventose per diventare fuoco-aria, in un sublime equilibrio spirituale di luce e bellezza. E Omolu infine può vedere e farsi vedere, perché non c’è più niente di cui avere timore.
Da quel momento in poi danzerà da solo, perché solitario è il destino di ognuno, ma riappropriatosi della bellezza potrà guidare, com’era stabilito, lo sviluppo spirituale di ciascun essere umano (…).”

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Tratto da Marcella Punzo, Le grandi madri del Brasile, pagg. 84-85.

Onorare la Malattia

Durante questo anno e mezzo di pandemia, si ha assistito alle più svariate forme di negazione, di sottovalutazione, di schernimento, di minimizzazione, di mera incoscienza. È più facile negare e fare finta che ciò che succede non ci riguardi, che sia un inganno, addirittura una burla. È molto più difficile guardare in faccia la realtà e venirci a patti, accettando di imparare ciò che ha da insegnarci e diventando davvero più ricche e consapevoli.
Da diversi mesi mi si muoveva dentro la sensazione di qualcosa che non riuscivo a cogliere pienamente, qualcosa di cui riuscivo a intravedere solo brevi frammenti isolati, e che solo negli ultimi giorni si è mostrato completamente. E lo ha fatto ancora una volta grazie a un orixà della tradizione afro-brasiliana. Un orixà che, soprattutto adesso, dovremmo ascoltare – e onorare – tutte e tutti: Obaluayé, chiamato anche Omolu.
Obaluayé è l’orixà delle malattie, è l’orixà della lebbra, della peste, delle febbri, delle epidemie, e quindi delle pandemie. È l’orixà ricoperto di piaghe e di pustole marcescenti, del malessere fisico e interiore, della menomazione, della putrefazione del corpo quando ancora si è in vita. Per questo si potrebbe pensare che sia un’entità disprezzata e denigrata, ma la realtà è che si tratta, sì, di un orixà fra i più temuti, ma anche e soprattutto di uno dei più amati, dei più celebrati e onorati.
Per quale motivo?
Perché la malattia è rispettata. La malattia è riconosciuta, accettata e onorata, nonostante la sofferenza che reca, perché solo così è possibile accogliere anche il suo potere trasformativo e, se possibile, la sua guarigione.
Omolu è infatti colui che incarna e diffonde la malattia, ma è anche colui che la malattia l’ha conosciuta così bene “da diventare Medico” e da usarla “come via di purificazione e di riscatto”. Per questo è appellato anche “il Grande Purificatore”.

Mi è capitato tante volte negli ultimi anni di leggere le riflessioni di alcune amiche che con malattie e problemi fisici hanno a che fare tutti i giorni. Io stessa sono una di queste, anche se non ne parlo volentieri. Tutte loro riescono a cominciare a trasformare la malattia solo nel momento in cui, avendola riconosciuta e accettata veramente, iniziano ad ascoltarla e a renderla non più una nemica da estirpare dal corpo – cosa impossibile – ma quasi una alleata. Una alleata di certo non desiderata, di cui si avrebbe fatto a meno, ma che è lì, presente, e quindi merita comprensione, amore e ascolto.

Tornando al principio della mia riflessione, quello che ho sentito in questo anno e mezzo è stato prima la necessità – Ananke – di accettare la pandemia e imparare a comportarmi, altrettanto necessariamente, in modo da limitarne il più possibile il contatto e i danni; e dopo il rispetto per essa, per il suo potere distruttivo, e al contempo per il potenziale trasformativo che porta con sé.
Ho letto tanto di ciò che è stato scritto in questo lungo periodo, ma un pensiero del tutto controcorrente continuava a sorgermi dentro ogni volta sentivo inveire rabbiosamente contro di essa:
Io non riesco a odiare la malattia, a insultarla, perché il mio rispetto per essa è molto più grande.
La riconosco, la vedo, la temo, osservo da vicino il suo potere mortifero, e per questo la rispetto
.”

Non avevo il coraggio né la voglia di scrivere questi pensieri prima – so come va sempre a finire – ma conoscere Obaluayé e il suo insegnamento così prezioso, oltre alle parole delle amiche e delle conoscenti che hanno imparato, o stanno imparando, a trattare la malattia con ascolto e amore, mi ha ispirata a farlo adesso.
Non porta a niente sputare veleno contro la pandemia, espressione potente e attuale proprio di entità come Omolu; non porta a niente negarla, voltarsi dall’altra parte, o trattarla come se fosse una sciocchezza.
Guardarla in faccia, riconoscendola, rispettandola e arrivando persino a onorarla nel suo devastante potere naturale, è invece ciò che di più difficile si possa fare, e al contempo, è anche ciò che potrebbe richiamare una trasformazione vera e profonda. Ciò di cui non solo noi singole/i, ma tutto il mondo ha realmente bisogno.

***

Io rispetto e onoro coloro che portano in sé una malattia, e che convivono non solo con i limiti che essa impone, ma anche con tutti i profondi insegnamenti che porta con sé quando viene accolta, ascoltata e trattata con amore.
E non posso fare a meno, anche io, di amare l’orixà Obaluayé, che ringrazio per i grandi insegnamenti che ancora trasmette, persino dall’altra parte del mondo.

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La citazione tra virgolette è tratta da Marcella Punzo, Le grandi madri del Brasile, pag. 85.
Illustrazione di Rovina Cai

Abbracciare l'Ombra

Riflettendo su alcune esperienze passate, nelle quali mi ero sentita in colpa, e in un certo modo ero stata ripresa più volte per essere ciò che sono, ovvero non sempre solo luce e gentilezza, ma anche ombra e aggressività, ho guardato indietro, ho riguardato al qui e ora, e mi sono resa conto della strada fatta. In questi anni, piuttosto che limare o reprimere certi istinti che ho per natura, come avrebbero forse voluto altre persone, li ho semplicemente abbracciati e accettati, dando loro lo spazio che richiedevano, quando lo richiedevano, per sfogarsi e divampare se necessario, per poi vederli ritirarsi da soli nelle mie profondità, spontaneamente, senza repressioni che li legassero o li zittissero.
Siamo troppo abituate a vivere in una condizione spesso smorzata, forzatamente attenuata, governata dall’idea di dover sempre essere buone e gentili, sempre accomodanti e disponibili e sorridenti. L’istinto alla ribellione, la rabbia, l’aggressività che certe situazioni richiederebbero, sono viste come caratteristiche di una persona, o meglio, di una donna cattiva, ingestibile, addirittura squilibrata, una donna dal brutto carattere, mentre invece si tratta solo di una donna che non nega l’ombra, il buio, la morte, e che potrebbe essere molto più equilibrata di quanto si pensi.
E con questo non mi riferisco a chi è in balia delle proprie ombre, a chi è preda del proprio buio, ma a chi lo accoglie, lo riconosce, e pur lasciandolo libero di scatenarsi, non ne perde mai le redini. Perché non si tratta di diventare vittime delle proprie pulsioni, ma di imparare a conoscerle tanto da essere in grado di cavalcarle.
Questo è sicuramente molto difficile, per questo credo sia bene cominciare il prima possibile a muoversi in questa direzione – io ci provo da anni e faccio una gran fatica – iniziando a smettere di reprimere e considerare cattivo ciò che in realtà è naturale, ovvero di sentirsi in colpa per ciò che si agita dentro di sé, e, al contrario, prenderci confidenza. E soprattutto, cercando di trattare quelle parti di sé non con fastidio o vergogna, ma con comprensione e amore.

Non esiste nulla, in natura, che non abbia sia un aspetto lieto e calmo, sia uno spaventoso e violento.
Un cielo azzurro, luminoso e limpido, può diventare nero, plumbeo e minaccioso in un istante.
La brezza che profuma di fiori, può mutarsi in vento di tempesta che sradica gli alberi e strappa i raccolti.
La fiamma che scalda un focolare può mutarsi in incendio che brucia intere foreste e tutti gli animali che le abitano.
L’acqua fonte di vita, che sgorga limpida dalle sorgenti, può abbattere dighe, allagare e crescere violentemente fino a diventare maremoto.
E la terra che genera, nutre e accoglie, può tremare con tanta violenza da spaccarsi, crollare e mietere migliaia di vittime.
Gli animali, allo stesso modo, sono in grado di accudire e di difendere. Fra loro si uccidono continuamente, sia per difendersi, sia per preservare il proprio territorio, sia per nutrirsi.

La natura sempre florida e luminosa, non esiste.
E non esiste solo la vita. Esiste la morte.
Esistono la malattia, la sofferenza, il deperimento. Esiste la putrefazione ed esistono le ossa.
Fino a quando non abbracceremo l’ombra in tutte le sue forme, prendendo confidenza con essa fino ad accoglierla, e forse a trasformarla, non saremo mai complete.
E paradossalmente, la vera luce interiore di cui brilla perennemente l’anima, può essere trovata non solo nell’equilibrio della luce e del buio di cui è fatta la nostra esistenza incarnata, ma anche passando attraverso i doni della morte.
Quando né la luce né il buio distolgono dalla percezione del proprio centro numinoso, quando ci si sente traboccare d’amore mentre si cavalca la devastazione dell’ombra, allora forse si conosce davvero cosa significhi essere natura. Natura in tutte le sue forme.
Illustrazione di Pauliina Hannuniemi

sabato 5 giugno 2021

Di Orixà e Piccole Gazzelle

In questi giorni mi sto immergendo nell’atmosfera a volte colorata e luminosa, a volte ombrosa e inquietante, delle tradizioni afro-brasiliane della Candomblé. Era da tempo che volevo approfondire questa ramificazione dell’animismo ma non avevo idea che fosse così bella, e soprattutto così vicina e simile a ciò che sento e vivo, nonostante la sua lontananza geografica e l’apparente diversità.
Le divinità afro-brasiliane, gli orixà – si pronuncia “orisha” – per quanto dotate/i di una mitologia propria, ovvero delle proprie storie di potere, sono entità che rappresentano la natura nel suo aspetto più puro e selvaggio. Così Yemanjà è si una orixà femminile rappresentata come donna – nel sincretismo cristiano diventa la Madonna – ma è il mare in se stesso, con i suoi fondali e le sue maree; e Oxum, orixà sensuale e bellissima, è l’acqua dolce, il fiume, ma anche il liquido amniotico che avvolge i bambini prima della loro nascita; Nanã Buruku, anziana inquietante che vive fra le lapidi dei cimiteri brasiliani, è signora della polvere e dell’acqua piovana che, a contatto con la terra diventa fango; e una delle mie preferite, Bécem, è la versione afro-brasiliana della regina dei serpenti e serpentessa lei stessa.
E poi c’è lei, la mia orixà preferita, quella che probabilmente, se vivessi in Brasile, sarebbe la mia orixà protettrice: Yansã – od Oyà – la regina del vento, e vento lei stessa. Lei è l’aria, per questo è sempre libera, indomita, ma anche facilmente irritabile fino a diventare molto aggressiva e violenta.

Non c’entra molto – o forse sì – ma tutte queste divinità di origine africana mi ricordano l’unica volta in cui sono stata in Africa, per quanto si trattasse solo di un’isola: Djerba.
Non ho un buon ricordo di quel viaggio, non era lì che avrei voluto essere. A differenza della maggior parte delle persone, a me il villaggio turistico metteva angoscia, e l’unica giornata in cui abbiamo visitato il paese con il mercato, ho passato la maggior parte del tempo a nascondermi, e a sopportare le proficue offerte di centinaia di cammelli rivolte a mio padre per comprarmi.
No, non era quello il mio posto. Eppure mi dispiace di non averla vissuta meglio, di non essere stata in grado di guardare oltre e di cercare la similitudine al di là della differenza. Del resto avevo solo 15 anni ed ero ancora troppo lontana dal cammino interiore che avrei intrapreso quattro anni dopo.
Un bellissimo ricordo, che collega il mio spirito a quella cultura però ce l’ho, ed è un ricordo molto caro. Lì ho ricevuto, un po’ per caso, uno dei miei primi nomi “totemici”, con il quale sono stata appellata per tutta la durata della permanenza.
Uno dei camerieri che lavoravano al ristorante era un ragazzo altissimo, magrissimo, e dalla pelle nerissima. La sua estrema gentilezza la ricordo ancora con affetto, una gentilezza non impostata, finta, calcolata. Una gentilezza d’anima, vera.
È stato lui a dirmi, parlando in francese e cercando di farsi capire, che gli ricordavo l’aspetto di una gazzella, una piccola gazzella. Così, in pochi minuti, ero diventata la Petite Gazelle.
Ed era bello, ogni giorno, sentire quel “Bonjour, Petite Gazelle”.
La piccola gazzella è così diventata uno dei primi animali sacri a cui mi sono sentita affine, anche se era tanto lontana dalle mie origini, in una terra che sentivo così diversa dalla mia – e anche se in realtà detesto correre.
E paradossalmente, quello è stato uno dei primi tasselli del mio percorso lungo le vie animiste femminili, che portano a percepire la non-separazione fra noi e la natura, ad accogliere la vera e propria identificazione con essa nelle sue svariate forme, soprattutto con quelle del regno animale, che guida e protegge, e talvolta permette di comprendere le proprie stesse indoli, le pulsioni naturali e certe parti del proprio carattere innato.

Ora, ripensandoci, mi tornano in mente le parole della Iyalorixà – la “sacerdotessa” della Candomblé – di cui parla l’autrice Marcella Punzo nel libro Le grandi madri del Brasile, quando dice che non siamo mai noi a scegliere le nostre vie e i percorsi che intraprendiamo. Crediamo di scegliere, ci ripetiamo “io scelgo”, ma in realtà, ancora prima di scegliere, siamo già state scelte.
Ciò che crediamo di scegliere, ci ha scelte ancora prima che lo sapessimo, e la nostra vera scelta consiste solo nell’accogliere ciò che ci ha scelte, e rispondere alla chiamata.
Lo stesso insegnamento l’ho ricevuto percorrendo la mia via di appartenenza, che pensavo non avesse nulla a che vedere con le tradizioni afro-brasiliane, ma che ora sento simile.
Forse perché più si cerca la sorgente della spiritualità, più si arriva allo stesso centro da cui ogni tradizione ha avuto inizio.

Tutto ciò che viviamo, tutto ciò che fa parte del nostro cammino, e che scegliamo consapevolmente per reale pulsione interiore, in realtà è ciò che ci ha già scelte. Sta a noi scoprire verso quali scenari questa scelta reciproca ci porta, e sta a noi raccogliere i frammenti di verità interiore che, disseminati nei posti più impensati, ci rivelano la nostra vera essenza, e ci ricordano la nostra origine.

***

Ora, da brava Petite Gazelle, innamorata dell’orixà del vento Yansã e delle case di Candomblé – i terreiros, ovvero i templi – istituite e gestite dalle donne, torno saltellando leggera alle mie letture e a quelle tradizioni che ho scelto di approfondire, ma che forse, in un certo senso, avevano deciso di scegliermi molto prima che lo sapessi.
Illustrazione di Rosina Becker do Valle