lunedì 31 gennaio 2022

Una realtà, infiniti percorsi

Unico e comune è il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare.”
Eraclito

La saggezza antica parla, lo fa ancora a distanza di millenni, e ha il potere di dissolvere la nebbia.
Credo, umilmente, che la natura sia semplice, talmente semplice che noi, con le nostre menti contorte e assetate di complicazioni, non riusciamo a vederla nella sua pura nudità.
Così la rivestiamo di tanti veli, la appesantiamo, la complichiamo, e complichiamo la nostra stessa vita, volendo vedere ad ogni costo ciò che, a ben guardare, non c’è.

Credo che il percorso spirituale, quello efficace, non sia inventare mondi diversi, realtà “proprie e particolari” nelle quali rinchiudersi, ma diventare capaci, attraverso la semplificazione, di vedere la realtà che ci circonda, imparando a percepire e riconoscere anche quella sottile e numinosa che vive e brilla dentro tutte le cose.
Spogliarsi di tutti gli strati che ci separano dalla nudità interiore,
essere capaci di sacrificare ciò che non serve, ovvero di rinunciare a certezze a cui si è rimaste/i aggrappate/i per troppo tempo, lasciandole andare,
e liberarsi.
Così da poter cambiare il mondo, l’unico mondo che abbiamo, attraverso il cambiamento di noi stesse/i.

Una realtà unica e comune,
tanti, infiniti percorsi, per imparare a vederla, a viverla e a guarirla
.

Osservare ciò che accade in natura, e imparare a specchiarsi in essa.
Semplicità, nudità, e quindi limpidezza.
Risvegliarsi leggere/i e libere/i – veramente libere/i – ritrovando l’unicità della realtà sottile da cui proveniamo e a cui sempre torneremo, così da non cadere più nei tranelli di cui la via è cosparsa, e che pur tuttavia esistono per essere affrontati, smascherati e oltrepassati.

Abbiamo una realtà imperfetta da guarire attraverso la guarigione di noi stesse/i.
Come dentro, così fuori.
E abbiamo una realtà sottile da ritrovare e nella quale ricordare,
così da tornare a quell’unità originaria
che è tutto ciò di cui abbiamo veramente bisogno.

***

La via che conduce alla vera conoscenza è quella che cerca l'unità che è stata scissa.”
Fabio Chiocchetti
Fotografia di autrice o autore non indicata/o, raccolta da Pinterest.

domenica 30 gennaio 2022

La malattia nel mondo antico

(…) l’interdizione linguistica evita di chiamare la malattia con il suo nome perché nominarla equivarrebbe ad evocarla. Alla stessa si attribuiscono invece altri nomi onorifici per lusingarla a non nuocere.”
(Evel Gasparini, Il matriarcato slavo)

Trovo questo modo antico di rapportarsi con la malattia – e con le sue cause – estremamente armonioso. Lo sento parte di quell’equilibrio più grande a cui io stessa aspiro, e l’ho sentito profondamente mio sin dall’inizio di questa lunga e pesante prova a cui l’umanità è sottoposta.

Qualche mese fa avevo scritto un brano riguardante l’orixà brasiliano che incarna la malattia, la pestilenza, l’epidemia – e quindi la pandemia; e il modo in cui la malattia stessa viene trattata all’interno della religione candomblé, ma non solo.
In particolare riprendo:
(…) si potrebbe pensare che sia un’entità disprezzata e denigrata, ma la realtà è che si tratta, sì, di un orixà fra i più temuti, ma anche e soprattutto di uno dei più amati, dei più celebrati e onorati. Per quale motivo?
Perché la malattia è rispettata. La malattia è riconosciuta, accettata e onorata, nonostante la sofferenza che reca, perché solo così è possibile accogliere anche il suo potere trasformativo e, se possibile, la sua guarigione
.”

Ad oggi ritorno su questo concetto e lo condivido nuovamente, perché magari può essere utile a chi segue un percorso spirituale animista simile al mio.
E ripeto:
Io non riesco a odiare la malattia, a insultarla, perché il mio rispetto per essa è molto più grande.
La riconosco, la vedo, la temo, osservo da vicino il suo potere mortifero, e per questo la rispetto
.”

E aggiungo che, pur tuttavia, imparerò a non nominarla, a non chiamarla. Ma a trattarla ancora di più con rispetto, con gentilezza, dandole nomi diversi, per lusingarla a non nuocere.

Trattengo l’energia e la rivolgo, come un manto bianco e luminoso, alla protezione mia e di chi amo.
Accetto con gratitudine e fiducia le precauzioni che sono state offerte per evitarne gli effetti più gravi.
Rafforzo il corpo nell’eventualità di doverla conoscere, di modo che sia capace di gestirla e spegnerla.
E sempre mantengo accesa la fiamma,
che è speranza e guida in questo tempo difficile.
Fotografia di autrice o autore non indicata/o, raccolta da Pinterest.

La Dea dell'Abbondanza

Nelle fredde giornate d’inverno, quando il cielo terso assorbe la chiarità del paesaggio ammantato di neve, la Dea dell’Abbondanza passa sui ripiani dei campi, sugli orti, sui frutteti, sui prati. Le vesti splendenti hanno i riflessi del diamante; il volto emana luce e non si riesce a guardarlo, come il sole.
Viene dalla pianura la Dea dell’Abbondanza; cammina e pare volare nell’aria; vola e sembra camminare su piane, dossi e colline.
Nella destra tiene la bacchetta magica; con la sinistra regge un vaglio d’oro. Depone la bacchetta magica dentro il vaglio e semina per un ricco raccolto.
Visita le terre del Varesotto, del Mendrisiotto, del Luganese, scende dal Monte Ceneri sul piano di Magadino, risale le alte valli del Ticino, ed ogni villaggio che ha ricevuto la visita, ogni vallata che ha beneficiato della portentosa semina, gode di un’annata propizia.


Tratto da Aurelio Garobbio, Leggende delle Alpi Lepontine, Cappelli Editore, Bologna, pag. 70.
Illustrazione di Lily Seika Jones.

venerdì 14 gennaio 2022

La fata di tutti e di nessuno

Sull’Altopiano di Piné la natura meravigliosa, i boschi, i laghi, i monti invitano alla meditazione, e nella meditazione nasce la fata di tutti e di nessuno.
Essa abita dove ciascuno la pensa, ed è dove ognuno la vuole vedere.
Forse passeggia tacita nel bosco degli dei, sotto l’alto colonnato che disegna le innumerevoli navate del tempio verde dei pini; forse è nel raggio di sole che vi penetra a sghembo, o nei lontani stendardi di cielo azzurro che si intravedono fra i tronchi.
(…)
Essa vi segue nelle vostre peregrinazioni, è nel vostro pensiero e nella vostra ombra, nella vostra volontà e nel vostro cuore: mutevole come i vostri sogni e le vostre passioni, e quindi buona o cattiva, bella o brutta, secondo come voi la create.
Si veste a lutto per le nostre tristezze; s’ammanta di fiori per la gioia della festa.
Dicono che il suo nome sia Silvana, perché nasce dalla selva dei nostri pensieri; che, simile alla selva dei pini, degli abeti, dei larici, abbia le sue voci misteriose e strane, le sue ombre impenetrabili, le sue fresche radure di pace, le tempeste che squassano e abbattono.
Silvana è la fata di tutti e di nessuno. Contrariamente alle altre Fate che hanno la loro leggenda definita, essa ha mille leggende, ricamate dal cervello d’ognuno, che le plasma secondo il proprio essere.
La fata di tutti e di nessuno è come la speranza, ha una sua fucina in ogni cuore, e, per diversi che siano, tutti hanno una loro meta.
Ma è anche la creatura che nasce mille volte e non esiste mai.
Tutto quello che si è desiderato e non si è avverato, tutto quello che si è cercato e non si è trovato, tutto quello che si è amato con il pensiero, costruito con la mente, sperato con l’anima, costituisce l’ombra di questa fata di tutti e di nessuno.
Essa cammina sempre, ascende le erte più scoscese, sorvola gli spazi, anima le ombre notturne; cammina sempre, perché, se si fermasse un attimo e l’occhio dell’uomo la fissasse, la troverebbe sempre diversa da quella sognata.


***

La fata di tutti e di nessuno, la dea di tutti e di nessuno.
Quante volte la si incontra nelle parole, nei desideri, nelle certezze degli altri, e nelle nostre.
La dea di tutti e di nessuno è la dea che creiamo a nostra immagine e somiglianza, è quella che sublima e rende divine le nostre verità, il nostro agire, noi stesse/i.
È bella e buona, perché ci dà sempre ragione, di fronte a lei siamo divinità quanto lei.
E può essere realmente di una bellezza da abbagliare, quando la nostra anima è limpida e consapevoli sono le nostre intenzioni; al contrario, è una fata ombrosa, deforme, talvolta meschina, crudele, cieca, almeno quanto lo siamo noi.
Ognuna e ognuno di noi ha avuto bisogno di lei. E lei era lì, pronta a dirci sempre di sì.
Eppure la fata di tutti e di nessuno è pericolosa, perché non ci permette di cambiare, di evolvere, di ravvederci, di riconoscere l’errore, di vedere le nostre piccolezze, di ammettere che non sappiamo. Lei ci dà sempre ragione, punta il dito contro chi ci dà torto, e può elevare a divinità la nostra ignoranza.
Le suggeriamo le parole, e poi la ascoltiamo.
Decidiamo cosa è giusto, e poi proviamo compiacimento quando lei ce lo insegna.
Così siamo dee e dei quanto lei – è lei stessa che ce lo dice – e tutto ciò che crediamo diventa verità assoluta, di fronte alla quale tutti gli altri si devono inchinare.
E anche se ci rendiamo conto che esistono tante fate di tutti e di nessuno, tante dee di tutti e di nessuno quante sono le persone su questa terra, di sicuro è la nostra quella vera, è la nostra che dice la verità. Non quelle degli altri. Loro, se sono diverse dalla nostra, sbagliano sempre.
Poverini loro, che non se ne rendono conto.

Quanto è bella e gentile, e quanto è terribile e spietata la fata di tutti e di nessuno. Plasmata come si preferisce, la si invoca, e si immagina che risponda.
Eppure lei non esiste. Non è mai esistita, né mai esisterà.
E coloro che la creano, la invocano, e se ne sentono portavoce, vivono in un mondo tutto loro, che come la fata di tutti e di nessuno, non esiste.

***

Soprattutto in questi anni, è quanto mai importante riflettere e meditare a lungo sulla fata di tutti e di nessuno, imparando a conoscerci e quindi a riconoscerla.
È importante cominciare sin da subito a togliere potere al nostro ego e all’immaginazione che partorisce, in modo consapevole, attento e molto, molto umile, per cominciare a vedere e a sentire.

Perché la Fata, la Dea – quella vera, sempre che esista, e io ci credo – è cosa ben diversa. È colei che, secondo la tradizione antica, elargisce abbondanza o penuria in base al nostro modo di filare la nostra vita, è quella che ci regala fili d’oro o strappa e insudicia con il proprio piscio i nostri gomitoli, e talvolta è sì generosa, ma di catartiche legnate.
E sono quelle, che più di ogni altra cosa svegliano dal torpore e ci insegnano a camminare.

***

Siamo umili, e semplici, e attente/i a riconoscere i nostri stessi inganni.
Solleviamo il velo che annebbia la nostra vista,
anche se ciò che vediamo non ci piace, anche se preferivamo sognare,
e dare la colpa a qualcuno per i nostri fallimenti.
La Fata, la Dea – quella vera – non ci darà sempre ragione, ma non ci lascerà la mano,
e indicherà sempre la strada che, per quanto contorta e scoscesa e difficile, tende all’armonia, alla pienezza, alla verità.
Dipende soltanto da noi, e da nessun altro, la scelta di intraprenderla e camminarla,
o di continuare a sognare.

***

La leggenda La fata di tutti e di nessuno è tratta da Alberto Mari e Ulrike Kindl, La montagna e le sue leggende, Oscar Mondadori, Milano, 1988, pagg. 146-147.
Illustrazione di Liiga Klavina

giovedì 13 gennaio 2022

Filare il bianco e l'oro

Non è forse il cuore, quel gomitolo bianco come il latte, oro come il sole, dono della Madre Filatrice, che per quanto dipanato mai si esaurisce, ed anzi, pare che divenga ancora più grande, e rotondo, e bianco, e oro?
Colgo dal cuore un capo di filo – lana morbida e luminosa,
lo lego alle dita, e comincio a scrivere.

***

Certi giorni il filato è talmente tanto, e bianco, e oro, che vorrei poter tessere, e tessere, e tessere.

Possa io essere capace di tessere questo filo in una lunga veste scintillante,
tanto aderente e impalpabile da diventare una seconda pelle,
così che della grazia io sia vestita, dentro e fuori.
Piena di grazia, velata di grazia,
parole di grazia, occhi di grazia, sorriso di grazia.
Grazia nelle dita che filano e tessono,
e scrivono, e creano,
e toccano.

E quando il momento di grazia si dissolverà come pulviscolo dorato,
quando compariranno le nuvole e il buio,
e la veste svanirà insieme al suo incantesimo, lasciandomi nuda e smarrita,
possa io serbarne un filamento,
e ricominciare a tessere.

Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest.

mercoledì 12 gennaio 2022

Raggi d'oro

Un solo raggio di luce, sottile ma intenso, brillante, dorato, riesce a illuminare l’intera stanza.
Se poi quel raggio nasce da un cuore colmo di bellezza, il mondo stesso s’illumina.
E diviene d’oro.
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest.

Nel regno della Sibilla

Le mie Letture
Nome non ha
Nel regno della Sibilla Appenninica


Eppure le forre
E le cime e i boschi e le acque
Sono presenti e vivi,
con tutte le creature che vi si celano
.”

Immersa nel dorato sole d’inverno, leggo questo nuovo libro che ad ogni pagina rivela chicche preziose. Il libro, di Loredana Lipperini, si intitola “Nome non ha”, e in forma di breve racconto offre cenni, storie e tradizioni sulla misteriosa Sibilla Appenninica.
Riporto qualche breve citazione che stimola il “sentire incantato”, consigliando caldamente la lettura del testo completo.

***

(…) la grotta esiste, ma qui la Sibilla è dappertutto. In questa chiesa, e in altre chiese, ma non solo.
È nelle gole, sui monti, nei laghi.
Questo è il suo regno,
da quando i tempi erano giovani.


(…) le Sibille non vogliono aver memoria di tutto.
Quel che conta, così si dice di loro, è che parlino con la voce del dio: Viola sa che non è vero. Le parole appartengono alle Sibille, sono sedimenti di tutto quel che hanno visto (…)
.

Questo sono le Sibille. Se la loro parola sembra segreta o difficile, chi la ascolta, e prova a capirla, acquista parte della conoscenza del tutto. Così fecero, con i loro tanti nomi, Pizia, Cassandra, Egeria, Veleda. Tutte coloro di cui si diceva che possedevano l’èntheos, l’ispirazione divina. In realtà sono state loro a possedere il dio. O a sostituirsi a lui.

A volte le Sibille tacciono. Come Angerona, la dea romana che al silenzio presiede e lo spezza solo per profetizzare.

‘(…) Si dice che nella gola dell’Infernaccio danzino le ancelle della Sibilla’.
(…)
‘Ma perché si chiama Infernaccio?’, chiedo.
‘Per il rumore dell’acqua, forse’, dice Michele, ‘Ma prima si chiamava Balleria proprio perché si pensava che le fate venissero a ballare là. (…) la Sibilla le lascia andare, perché le fate amavano molto il ballo e avevano insegnato il saltarello ai giovani umani. I quali un po’ avevano capito che quelle con cui danzavano non erano fanciulle come le altre: perché secondo la leggenda le fate avevano zoccoli al posto dei piedi, che si intravedevano quando le gonne si alzavano nelle giravolte. E infatti qui si dice: ‘Quanto sono belle queste fate, però jè scrocchieno li piedi come le capre’.
La Sibilla, dunque, raccomanda loro di non farsi sorprendere dal sole. Ma a forza di ballare le fate dimenticano la raccomandazione e ai primi raggi di sole devono correre come il vento per tornare alla grotta. E lasciano dietro di loro una scia più chiara, che oggi si chiama Sentiero delle Fate, e scende dal Monte Vettore verso Foce’.


‘Come al solito’, aggiunge Maddalena, ‘i pastori e i viandanti venivano messi in guardia dal pericolo rappresentato dalle fate. Succede sempre così, no? Quando le donne non sono come tu ti aspetti sono pericolose. Quando ballano sotto la luna e quando scelgono con chi ballare (…). Ma le fate scendevano dalla grotta anche per insegnare alle ragazze a filare e tessere la lana (…). Queste storie nascevano per mettere in guardia gli uomini affinché temessero le donne così libere da non poter essere umane, e per ammansire le fanciulle affinché mantenessero il posto che era stato loro assegnato. (...)’ 

***

Brani tratti da Loredana Lipperini ed Elisa Seitzinger, Nome non ha, Hacca Edizioni, 2021, pagg. 12, 29-30, 34-35, 38, 54-55, 56.

***

Guardare dall’alto è un gesto di bellezza. Ti fa capire molte cose. Ti fa capire come la vita sia veloce a passare via, ma restano le montagne, e i fiumi, e i laghi e tutto quello per cui vale la pena di vivere, in fondo. Ed è questo che insegna la Sibilla.

Loredana Lipperini, Nome non ha, Hacca Edizioni, 2021, pag. 57
Illustrazione di Alan Lee
(So che non c'entra nulla perché è celtica, ma mi piace tanto lo stesso)

domenica 9 gennaio 2022

Di piume, briciole e amore

Ogni notte passo lunghi minuti a sbriciolare, spezzettare e sminuzzare biscotti, fettine di pandoro, noci. Sgrano fra le dita l’uva passa, verso una tazza di semi, e mescolo, mescolo, mescolo. È uno dei miei compiti, aiutare tutti gli uccelli che abitano nei dintorni, e che hanno fatto della mia casa la loro casa. Ci abitiamo insieme ormai, io dentro, loro intorno.
Questa notte la presenza a me stessa era più forte del solito, la mente libera, i gesti animati dall’intento. Così ho aggiunto un ingrediente in più, la parola “amore”.
Non è solo una parola, è amore vero. Amore nella sua forma più pura, libera, spontanea, viva.
Amore nelle mani, amore negli occhi, amore nell’attesa di rivedere, come ogni mattina, quei piccoli pennuti che attingono a pieno becco ciò che – lo sanno – non manca mai, ed è lì per loro.
Sentire amore e sussurrare amore, accarezzare il miscuglio di briciole e semi come fosse vivo, e chiamarlo amore. E gioia. Perché non vi è vero amore senza la gioia.

E aspettare che passi la notte per vedere cosa questa nuova magia compirà.
Aspettare che loro arrivino alle prime luci del mattino, a nutrirsi di amore.

***

Se non dovessi più esser viva
Quando i pettirossi verranno,
Date a quello con la cravatta rossa
Una briciola per ricordo.

Se anche non potessi ringraziarvi,
Essendo semplicemente addormentata,
Sappiate che ci sto provando
Con le mie labbra di granito!


Emily Dickinson
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest

sabato 8 gennaio 2022

Neve e bruma

Le mie letture
Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano


È arrivata la neve. Il bosco è un intrico di rami piegati, bisogna farsi molto piccoli per passare. Ci sono anche i caduti. E i dormienti. La neve è tanta, apre la prospettiva, fa di piombo il passo. Il letargo è una condizione diffusa, solo noi umani stentiamo a riconoscerlo. Sotto la neve il tempo s’incanta.
Un grande airone cenerino si alza in volo da uno stretto ruscello.


Di notte, la voce chiama dal costato finché l’animale non risponde. Come da molto, molto lontano. L’animale scava e scava senza interruzione.
Io sogno: una valle profondissima, ma non vertiginosa, impossibile dall’alto vederne la fine, ma dal fondo sale una bruma, è bianca, sale piano, in lente volute. In piedi sul margine so che la bruma è grazia e sapere, la bruma sa, sa per noi. Basta stare ferma e lasciarmi avvolgere. Intanto sorrido.


***

Tratto da Chandra Candiani, Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, pagg. 120 e 90.

Quanta grazia e quanta bellezza in queste poche e semplici parole.
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest.

venerdì 7 gennaio 2022

La Fiamma accesa

“Era la sera dell’Epifania, e una fanciulla laboriosa era indaffarata a riordinare, pulire e svolgere tutti i lavori domestici così da ultimarli prima dello scoccare della mezzanotte. Non appena avesse terminato tutto, avrebbe infatti acceso la fiamma per la dea Berchta, offrendole un luogo pulito e luminoso in cui fermarsi durante il suo lungo viaggio notturno. Sapeva che la dama si sarebbe adirata se avesse trovato la casa sporca e disordinata, e soprattutto la fiamma spenta, e lei sperava al contrario nella sua benedizione e nella sua benevolenza, poiché la amava molto.
Il tempo passava e la fanciulla, presa dai pensieri e dai molti impegni, non si accorse che la mezzanotte era trascorsa, e che la notte era divenuta fonda e silenziosa.
A un tratto, la porta della sua casetta si spalancò, e una figura alta e luminosa – talmente luminosa che la giovane non riusciva a guardarla – entrò.
La fanciulla si rese conto che era al cospetto della dea Berchta, e nonostante lo stupore e la meraviglia, si sentì atterrita. Era stata così impegnata a lavorare che non aveva acceso la fiamma.
La dama si avvicinò, mentre la sua luce lentamente si placava, e vedendo la giovane con gli occhi bassi e pieni di lacrime, le sfiorò il volto.
“Perché sei triste, bambina mia?”
“Madre, ho dimenticato di accendere la fiamma per voi.”
“Ne sei proprio sicura?”, chiese la dama con tono gentile.
La fanciulla guardò il cero appoggiato sul tavolo, intatto e con lo stoppino spento.
“Sì Madre, il cero è spento.”
La dama non distolse gli occhi dalla fanciulla.
“Ne sei proprio sicura?”, ripeté.
La giovane non riusciva a capire, continuava a guardare il cero, e a provare rimorso per non averlo acceso.
“Sì Madre, potete vederlo voi stessa”, e indicò il tavolo.
“Eppure”, sorrise la dama continuando a guardare la fanciulla, “qui vedo una fiamma forte e una luce calda. Guardati, bambina mia.”
La fanciulla si guardò, e vide, all’altezza del proprio cuore, una fiamma talmente grande, e forte, e bella, che ne rimase ammaliata. La fiamma ardeva in lei, brillava e pulsava, e più la fanciulla la osservava, più la sentiva, e si rendeva conto che era fatta dello stesso amore, della gioia e dell’armonia che le ardevano dentro ogni giorno, e che lei si curava di nutrire e di mantenere sempre accesi.
“È solo questa la fiamma che cerco e che più di tutte mi onora”, disse Berchta, “e la tua è forte, calda e mai si spegne, nemmeno quando soffia vento di tempesta e il buio è più opprimente.”
La fanciulla sollevò lo sguardo verso il viso della bianca signora e la sua abbagliante bellezza la travolse. Si sentiva accecata dall’amore che emanava, e la fiamma dentro di sé divenne ancora più grande, e forte, e bella.
La dea si chinò e le baciò la fronte.
“Finché la tua fiamma resterà accesa, le tenebre non potranno avanzare, e l’amore, la gioia e l’armonia continueranno a vivere. Non lasciare mai che si spenga, bambina mia.”
“Lo prometto, Madre, lo prometto.”
Berchta sorrise e annuì. La sua luce cominciò a crescere e a brillare talmente forte che la fanciulla dovette coprirsi gli occhi, e quando li riaprì, lei non c’era più. Al suo posto, una luminosa nebbiolina azzurra aleggiò ancora qualche istante nella casa, e posandosi su ogni cosa, la benedì.

Gli inverni trascorsero numerosi, e la fanciulla tenne sempre fede alla sua promessa.
E se altre volte, affaccendata negli impegni della vita, si dimenticò di accendere il cero durante le notti sacre, non mancò mai di nutrire la propria fiamma, che continuò a risplendere, portando la sua parte di luce nel mondo e permettendo all’amore, all’armonia e alla gioia di continuare a vivere.”
Illustrazione di Josie Wren.
Testo di Laura Violet Rimola. Nessuna parte di questo testo può essere riprodotta o utilizzata in alcun modo e con alcun mezzo senza citare il nome dell'autrice e la fonte:
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lunedì 3 gennaio 2022

La fata dei sogni

Le mie Letture
Una luce di Natale per le dodici Notti Sante
La fata dei sogni


Quando il sogno incominciò, tutto intorno ad Amelie e Nana era avvolto in delicati veli celesti che solo a poco a poco si dissolsero. Si ritrovarono in un prato vicino a un lago circondato da canne, in cui si specchiava la luna. Questa volta era Amelie a tenere la candela in mano. In riva al lago era seduta una bellissima donna avvolta in un lungo abito azzurro e con lunghi capelli argentei che le ricadevano sulle spalle. Era seduta dietro a un telaio, la cui navetta si muoveva in continuazione avanti e indietro. Ma dov’erano i fili che utilizzava per tessere? Sembrava esserci uno strano legame tra la luna e la bella donna, poiché ella continuamente rivolgeva il suo sguardo verso l’alto prendendo con la mano qualcosa nell’aria, come per catturarne i raggi.
(…) dal telaio pendevano dei veli leggeri attraverso i quali si intravedevano delle immagini colorate, che cambiavano continuamente. Ogni tanti, poi, uno di questi veli si staccava dal telaio e volava lentamente verso il lago.
“Che cosa fai?”, domandò Amelie. “Chi sei?”
“Io sono la fata dei sogni”, rispose la donna, “con i raggi della Luna e i pensieri degli umani intesso i sogni.”.


Tratto dal libricino di Ingeborg Pilgram-Brückner, Una luce di Natale per le dodici Notti Sante, pagg. 98-99.
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest.

La signora della nebbia

Le mie letture
Una luce di Natale per le dodici Notti Sante
La signora della nebbia


Le bambine videro in lontananza una donna avvolta in veli bianchi che lentamente si avvicinava alla sorgente. Man mano che avanzava, tutto quello che si trovava lungo il percorso veniva avvolto da quei veli bianchi.
Nana si spaventò: “Chi è quella signora?”. Le sirene sorrisero: “È la signora della nebbia, anche lei fa parte degli spiriti dell’acqua, come noi. Siamo in tantissimi e cambiamo le nostre sembianze a seconda dell’acqua che accompagniamo”.
(…)
Nel frattempo la signora della nebbia aveva raggiunto la sorgente avvolgendo nei suoi veli l’acqua. Si fermò davanti alle bambine, che indietreggiarono impaurite.
Ma la signora sorrise amorevolmente, dicendo: “Non abbiate paura, non vi faccio niente. Adesso potrei portarvi con me sulle nuvole, farvi sorvolare prati e campi, ma sarebbe troppo per voi. È meglio che vi riporti a casa da questo viaggio”.
Prima che Amelie e Nana potessero rendersene conto, la signora le aveva già avvolte nei suoi fitti veli bianchi, intonando una dolce melodia.
Il mattino seguente, quando le bambine cercarono di liberarsi da quei veli bianchi, si accorsero che in realtà non erano avvolte in essi, ma semplicemente nelle lenzuola dei loro letti. Fuori dalla finestra videro però una fitta coltre di nebbia. La signora della nebbia non era ancora andata via
.”

Tratto dal dolcissimo libricino di Ingeborg Pilgram-Brückner, Una luce di Natale per le dodici Notti Sante, pagg. 65-66.
Illustrazione di Agnes Szucher

La magia nelle piccole cose

Lascio agli altri, senza rimpianto, il bisogno di cercare fuori la vita che vogliono vivere, una vita piena, frenetica, impegnata. La lascio agli altri, e rimango dentro.
Il mio gesto magico, spesso, è quello di chiudere la porta. Con intento, e con le mani cariche di luce.
Così ciò che è disarmonico o invadente resta fuori, e ciò che è dentro resta intatto, protetto.
Cala il silenzio, e si apre il cuore all’ascolto.

Nel silenzio accadono le piccole magie quotidiane. Quando si osserva, immobili, fuori da una finestra, o si ascolta l’emanazione dell’anima del mondo, anche dentro di sé.
Mentre osservavo immobile, appoggiata al vetro della finestra, è arrivato un codirosso spazzacamino. Non mi aveva vista, e così si è infilato fra il vetro e la persiana aggrovigliata di rampicanti. Cercava gli insetti, e io cercavo lui.
Si muoveva con frenetica eleganza, a pochi centimetri dal mio viso, e non si accorgeva del mio cuore che si riempiva di commozione.
Ho mosso le ciglia, mi ha vista, ed è volato via. Ma non lontano, è rimasto su un ramo poco distante, guardandomi attraverso la finestra per qualche attimo, prima di andare altrove. Verso altri vetri, verso altre persiane – tirate a lucido, magre di insetti.

Assomiglia a un piccolo custode del fuoco, un fuoco segreto perché, nascosto sotto le piume fuligginose, non si vede. Ma quando lui spicca il volo e la coda si muta in ventaglio, ecco la fiamma che guizza, e poi freme.

***

Nel pomeriggio ho ricevuto un dono, non per me, ma anche per me. Eppure, essendo l’unica che lo ha notato, è stato involontariamente solo per me.
Sulla striscia di terra che limita e divide due campi, erano posati tutti i guardiani delle acque, in fila, nessuno escluso.
Un airone bianco maggiore, accanto a una garzetta, accanto a un ibis sacro, accanto a un airone cenerino.
Tutti rivolti verso la stessa direzione, tutti immobili, posti quasi alla stessa distanza l’uno dall’altro.

Non so leggere i segni, ma colgo questo dono senza pensare, senza interpretare, senza vaticinare. Lo colgo e basta, con gratitudine, in silenzio.
Fotografia di Ben Douglas, raccolta da Pinterest