mercoledì 31 agosto 2022

Seguire i brillii

Questa mia ricerca fra i simboli, le divinità e le leggende mitiche egizie è come un viaggio che mi sta portando ogni giorno a incontrare frammenti di qualcosa che, nonostante le lontananze e le differenze, mi appartiene profondamente. Cammino estasiata fra tombe e cunicoli, nella terra e nella sabbia, comincio a comprendere la lingua dei geroglifici, esploro volti eterni, occhi allungati, animali sacri, imparo e ripeto gestualità antiche, ascolto il racconto del viaggio oltremondano, trovandolo inaspettatamente familiare, e non potendo conoscere ogni cosa mi soffermo solo davanti a quelle immagini particolari che brillano per me.
Questa mi chiama, ha qualcosa da dirmi, penso.
Questo simbolo mi brilla dentro, deve essere un frammento di quello che cerco.
Ed è sempre così.
Non si può conoscere tutto, non basterebbe una sola vita, e non mi interessa nemmeno farlo.
Seguire i brillii, vedere dove portano, ascoltare cosa dicono, e ritrovare riflessi perduti o dimenticati, è l’essenza del mio cercare e camminare.
E condividere, con chi vuole leggere e ascoltare, una parte di quello che incontro e imparo a conoscere, mi rende molto felice.

Questo mio primo viaggio sotterraneo e istintivo nella terra egizia è quasi giunto al suo termine, comincio a sentire l’esigenza di tornare a casa. Mi ci soffermo ancora un pochino – non ho ancora completato tutte le tappe, non ho ancora raccolto e conosciuto tutto ciò che brilla e parla – prima di tornare fra le mie amabili nebbie.
Eppure la distanza non è forse un’illusione?
Alzo gli occhi, e l’ibis sacro – Thoth – mi vola davanti. Guardo in alto, e l’airone cenerino – Bennu – attraversa il cielo terso.
Li ho sempre amati, ora li amo solo un pochino di più.
E tengo stretto nel cuore questo viaggio inaspettato, in una terra inaspettata, che per questi ultimi mesi è stata una casa più che mai inaspettata.

***

So che molte viaggiatrici e molti viaggiatori visitano terre lontane e le vivono sulla pelle. Alcune e alcuni li ammiro. Io non sono una grande viaggiatrice. Ma so che i viaggi che compio, pur senza muovermi, sono tanto profondi e camminati col cuore e con l’anima, da essere altrettanto preziosi.
Forse i miei occhi vedono poco, ma il mio cuore è così pieno di amore per ciò che vede, e sente e coglie, da traboccare, continuamente.
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest

lunedì 29 agosto 2022

Neith, la Grande Madre egizia delle origini

Prima di ogni cosa, prima di tutte le dee e di tutti gli dei d’Egitto, prima della vita e della morte, prima della creazione stessa, vi era Neith. Solamente Neith, la demiurga, la prima madre, colei che tutto crea da se stessa e da cui ogni cosa ebbe origine.
Lei era l’acqua dell’oceano primordiale, il Nun, e nel suo primo fremito, nella sua prima increspatura, Neith ebbe coscienza di se stessa e iniziò a creare.
Partorì la stella solare, Ra, e al contempo il suo più atavico nemico, il serpente Apophis, dando origine al divenire e all’incontro-scontro fra luce e ombra. Partorì le prime dee e i primi dèi, e generò l’umanità. Ogni donna e ogni uomo aveva come prima madre divina Neith.
Il suo nome sembra significare “Colei che è”, poiché lei era “tutto ciò che è stato, che è e che sarà”. Veniva invocata come “l’Antica”, la “Madre degli Dèi”, “Colei che illuminò il primo viso”; era la dea che aveva creato la nascita, modellava corpi e anime come fossero d’argilla, ed era talvolta identificata con la “vacca celeste”, che in egual modo si dice avesse creato il mondo. Gli animali con cui talvolta si identificava erano la mucca, il serpente e la leonessa.
Ma soprattutto, Neith era “il grande flusso”, l’acqua primordiale della vita, il liquido amniotico che scorre e vivifica ogni cosa. Da lei ogni cosa fluisce e viene al mondo.
Madre delle creature acquatiche, in particolare dei serpenti e dei coccodrilli – raffigurata mentre allatta al seno un piccolo coccodrillo, il dio Sobek suo figlio – Neith era considerata sia donna che uomo, sia madre che padre, comprendeva in sé entrambe le nature femminile e maschile, oppure era definita asessuata; eppure era sempre rappresentata con corpo di donna. Era la Grande Madre degli Egizi, che rimaneva femmina pur dando vita, incarnando e ospitando sul suo corpo il femminile e il maschile in egual misura e assoluta parità.
Neith era la madre più antica, onorata nel periodo della preistoria egizia fino al primo periodo dinastico. In seguito venne lasciata da parte e altre divinità femminili, in particolare Hathor e Isis, ebbero maggiore importanza, ma lei non venne mai dimenticata. Divenne la dea della città di Sais, di cui era matrona, e i suoi culti proseguirono in modo più contenuto.
Il suo simbolo e geroglifico è un segno misterioso, ha molteplici significati e subì alcuni mutamenti.
Inizialmente rappresentava due frecce incrociate sopra uno scudo, in quanto Neith, pur essendo una madre-padre creatrice non disdegnava la guerra. Uno dei possibili significati del suo nome era “la terribile, la terrificante”: era protettrice attiva dell’Egitto, e in quanto tale, all’occorrenza, era una guerriera, spietata e inarrestabile contro i nemici che minacciavano le sue creature e mettevano a repentaglio l’armonia della sua terra. In questo contesto era anche signora delle armi e guardiana dei morti in battaglia.
Col tempo, le frecce e lo scudo di Neith si “ammorbidirono” e il suo simbolo venne interpretato come una spola da telaio. Così la grande madre delle origini divenne dea della tessitura e della produzione delle sacre garze che avvolgevano le mummie per il loro viaggio oltremondano. Neith divenne dea dell’oltretomba, dei morti e del rito d’imbalsamazione, al fianco di altre dee a lei simili.
Pare tuttavia che il suo simbolo avesse un significato ancora più antico. Assomiglia infatti alla forma degli elateridi, una famiglia di coleotteri detti anche ferretti – i click beetle – che in Egitto è facile trovare vicino alle acque del Nilo. In questo senso il geroglifico richiamerebbe un insetto dell’ambiente umido, che potrebbe simboleggiare la creazione della vita dall’acqua, considerando anche l’estrema importanza che gli antichi egizi attribuivano ai coleotteri, in particolare agli scarabei. Uno degli altri possibili significati del nome di Neith, era “acqua”.
Con l’arrivo dei Greci, Neith venne ricordata quasi esclusivamente nel suo aspetto di dea guerriera e venne associata interamente ad Athena. Ma la sua origine di creatrice primigenia, chiamata ancora nel periodo del Nuovo Regno “Madre e Padre di tutte le cose”, sopravvisse, seppur in modo più nascosto, “velato”. Neith potrebbe infatti essere considerata la prima dea misterica – nascosta lei stessa da un peplo-velo che “nessun mortale sollevò mai”.

***

Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà,
e nessun mortale sollevò mai il mio peplo
.”
Iscrizione sulla statua di Neith nel tempio di Sais
Le fonti utilizzate per questo brano di appunti e riflessioni sono le seguenti:
Geraldine Pinch, Egyptian Mythology, Oxford University Press, pagg. 169-170;
Richard H. Wilkinson, The Complete Gods and Goddesses of Ancient Egypt, Thames & Hudson, pagg. 156-159;
Mario Tosi, Dizionario Enciclopedico delle Divinità dell'Antico Egitto, Ananke;
Barbara Faenza, Neith, la dea guerriera, articolo di Storica – National Geographic, 16 febbraio 2022.

Consiglio vivamente la lettura di questo articolo di Stefania Tosi, tratto dal suo libro La Dea delle Origini, di UnoEditori: Neith, il culto della dea madre nell'antico Egitto

venerdì 26 agosto 2022

Il Velo di Neith

Nel libro dedicato a Isis e Osiris, Plutarco riferisce dell’iscrizione presente sulla statua della dea Neith, nel tempio di Sais a lei dedicato. L’iscrizione dice:

Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà,
e nessun mortale sollevò mai il mio peplo.


Queste parole vengono spesso associate a Isis, mentre il peplo diviene il velo, simbolo di ciò che cela il divino agli occhi dei mortali. Sollevarlo avrebbe significato vedere l’essenza più pura della dea, e svelarne – letteralmente sollevarne il velo – il mistero.
Proprio al mistero della dea Neith – o Isis nella sua versione – si riferisce il poeta tedesco Novalis nel 1700, con questi catartici versi:

(…) a uno riuscì
- Egli sollevò il velo della dea di Sais -
Ma cosa vide? Vide – meraviglia delle meraviglie
Se stesso
”.
Dipinto di Edwin Long, raffigurante una Sacerdotessa di Isis. Sullo sfondo, l'artista accenna alle quattro musiciste e alla danza delle danzatrici sacre, dipinte nella tomba di Nebamon.

giovedì 25 agosto 2022

Di danze e specchi nell'antico Egitto

Danzare con uno specchio, che riflette l’invisibile e l’invisibile, era una ritualità egizia che diffondeva la gioia e la grazia della dea Hathor, così come la sua luce. Come accennato in precedenza, durante questa danza le sacerdotesse, o le semplici danzatrici, tenevano in mano degli specchi, “che mossi durante la danza probabilmente producevano particolari giochi di luce ed erano associati al concetto di rinascita”.
Riflessi di luce prodotti forse dalle fiaccole, dai fuochi che ardevano nella sala del tempio, che illuminavano e forse benedicevano tutto ciò che, con il loro riverbero, toccavano. Era Hathor quella luce, era Hathor quel riflesso, e la promessa della rinascita attraverso di lei.
In merito, aggiungo questo bellissimo brano di Layne Redmond:

“[Hathor] Tiene in mano uno specchio che riflette la vastità di tutto ciò che non è e anche di tutto ciò che esiste. La realtà è in un flusso continuo, ma lei rimane inalterata. Al ritmo dei tamburi a cornice e dei sistri, le sue sacerdotesse eseguivano la rituale Danza degli Specchi, che rifletteva la sua gloria. Lei è troppo luminosa, troppo abbagliante per guardarla direttamente, l’Aurea, la Dorata, la Bella, l’Adorabile. Anche gli dei devono evitare di guardare direttamente la radiosità accecante della pura coscienza.

Una dea talmente immensa e luminosa che per guardarla occorre uno specchio – un simbolo che ritornerà nel mito greco della gorgone, la dea serpentessa.
Il rituale della danza degli specchi era forse un modo per portare il riflesso di Hathor, e quindi la sua presenza, attorno alle sue danzatrici, nella sacralità del tempio e del momento, in una danza che riuniva la donna e la dea, l’umano e il divino.

***

Osservando gli specchi hathorici con il manico decorato a forma di testa di Hathor, non ho potuto fare a meno di notare la similitudine fra il cerchio riflettente, spesso di bronzo dorato, con il disco solare che Hathor porta sulla testa, fra le due corna di mucca. Lo specchio, in questo senso, diventerebbe l’immagine materiale del sole, la sua luce riflettente richiamerebbe i raggi del sole, e le sacerdotesse che svolgono la danza degli specchi, potrebbero rivelarsi ancelle solari che recano piccoli soli tra le mani, e ne riverberano la luce nel tempio, portandone i caldi raggi sulla terra.
Inoltre, specchiarsi nello specchio di Hathor, sarebbe quindi come specchiarsi nel sole, specchiarsi in Hathor stessa – l’Occhio di Ra – e trovarvi, dorato e brillante, il proprio riflesso.
Perché Hathor, il divino femminile, non era solo attorno, ma dentro.

***

Le citazioni fra virgolette sono tratte da Layne Redmond, Quando le donne suonavano i tamburi, Venexia Editrice, pagg. 111, 117.
Fotografia di Maulleigh

mercoledì 24 agosto 2022

Di sistri e campanelli nell'antico Egitto

Nella cultura egizia, una delle arti puramente femminili era quella della musica. I dipinti antichi mostrano le donne intente a suonare vari strumenti musicali, a fiato e a percussione, e a danzare ritmi e suoni da loro stesse creati. Fra gli strumenti musicali a percussione utilizzati dalle sacerdotesse e dalle musiciste, uno dei più sacri era il sistro, l’unico strumento, oltre alla voce, che era suonato nella parte più interna e inaccessibile del tempio.
Agitato in modo ritmico, con intensità e frequenza variabili, il sistro emetteva un tintinnio metallico prodotto dalle sue placchette di bronzo o di altro metallo nobile, che si credeva elevasse alle dimensioni sottili e aiutasse le sacerdotesse a connettersi con la divinità, in particolare con Hathor, dea della musica e della danza, alla quale le sacre musiciste spesso erano votate.
Così scrive Layne Redmond: “I sistri erano usati nei riti più sacri (…). Il tintinnio ritmico era un mezzo per sintonizzare la coscienza di ognuno con la coscienza della divinità. I testi descrivono Hathor che scuote il sistro allo scopo di concedere la benedizione dello sviluppo spirituale. (…) Nelle mani della dea il suo movimento simboleggiava il movimento della nascita del mondo attraverso il mezzo del suono.
La parola sistro deriva al greco seistron, a sua volta da seio, ovvero “scuoto, agito”, simile a seyo, “metto in rapido movimento”, ma sembra che la parola significasse anche “brillare, emanare luce”.

Nel Libro egizio degli inferi, che descrive il viaggio notturno del Sole verso la rinascita mattutina – e al contempo la forma emblematica del percorso iniziatico-alchemico di coloro che desiderano “nascere due volte” nel corso della propria vita – fra le varie figure raffigurate è presente Hathor che porta in mano il sistro. Come scrive Boris de Rachewiltz, per raggiungere il potere interiore simboleggiato dagli scettri sekhem, era necessario avere padronanza della corrente astrale, imparando a “dosare il ritmo”. “È la simbolica ‘arte della Bilancia’ che prescrive le dosi di attivo e di passivo necessarie al buon successo dell’operazione. Nel testo ciò è raffigurato dal sistro della dea Hathor e dalla piuma della dea Maat che seguono l’imbarcazione del coccodrillo. Il sistro, lo strumento che le sacerdotesse della dea dell’Amore agitavano ritmicamente nelle cerimonie, equivale appunto allo stato vibratorio, al “ritmo”. E la matematica esattezza di questo ritmo è precisata dalla piuma di struzzo della dea Maat, la dea della Verità e Giustizia: simbolo di equilibrio matematico assoluto.

Oltre a innalzare la coscienza, a sintonizzare con la dimensione divina, ad accompagnare la danza sacra e a segnare il ritmo iniziatico e creativo, il sistro era anche un potente strumento protettivo. Il suono prodotto dai suoi sonagli metallici cacciava gli spiriti malevoli e allontanava i nemici.
Questa capacità apotropaica apparteneva al sistro sin dai tempi più antichi, e ancora oggi “lo scuotere i campanellini, il suonare le campane, il suono dei cembali e il colpire il gong hanno mantenuto questa funzione sciamanica. Le danzatrici, sin dal Paleolitico, attaccano sonagli e campanelli ai loro piedi e ai vestiti o li indossano come collane.

***

Le citazioni fra virgolette sono tratte da Layne Redmond, Quando le donne suonavano i tamburi, Venexia Editrice, pag. 111; e da Boris De Rachewiltz, Il libro egizio degli inferi, Edizioni della Terra di Mezzo, pag. 55. L’etimologia proviene dal Dizionario Etimologico online di Ottorino Pianigiani.

martedì 23 agosto 2022

Non mi abituerò mai

E niente, non mi abituerò mai.
Non mi abituerò mai al volo maestoso e sublime degli ibis sacri sotto i raggi del sole. Ogni volta mi suscita un colpo al cuore e, immediati, gli occhi lucidi di commozione.
Non mi abituerò mai al volo silenzioso ed elegante degli aironi sui campi di riso maturo. Ogni volta mi canta dentro e mi riempie di meraviglia. Non mi abituerò mai alla sensazione di immensità del volo nel cielo sconfinato. Ogni volta mi ammutolisce, il cuore si impone su tutto il resto, e con uno slancio inarrestabile, l’anima prende il volo. Alta, libera.
E niente, non mi abituerò mai a questa infinita bellezza e all’emozione che mi travolge ogni volta.
Grazie al cielo, non mi abituerò mai.
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest

giovedì 18 agosto 2022

Sacre gestualità

Fra le gestualità sacre che si possono osservare sulle pareti delle tombe egizie, una delle più frequenti è quella dell’adorazione o della preghiera. Un atto molto diverso da quello che oggi viene usato per pregare, con le mani poste palmo contro palmo.
Le donne e gli uomini egizi esprimevano il loro amore per le divinità in un gesto di amorevole proiezione: le mani poste davanti a sé, quasi a formare una coppetta, i palmi rivolti verso la divinità. Questa posa sacra aveva il senso di onorare la divinità stessa o i suoi simboli, lodarla, adorarla, offrire a lei la propria devozione e il proprio amore. Un dono, non una richiesta, un dare, non un chiedere.

Oltre a quello di adorazione, vi era il gesto del conforto, questa volta compiuto esclusivamente dalla divinità – mai dalle persone – verso la donna o l’uomo da essa protetta/o. Una mano vicina al viso, quasi posata sulla spalla. Una gestualità il cui senso sacro era di conforto appunto, ma anche di benedizione, vicinanza. La dea o il dio, in questo modo, diceva “io ti benedico, ti conforto, ti sono vicina/o”.

Infine, la mano nella mano. La dea o il dio prendeva per mano la donna o l’uomo sotto la sua protezione, per condurla/o con sé, attraverso il viaggio nell’altromondo, o attraverso quello della nuova vita.
Ti prendo per mano”, suggerisce, “vieni con me, camminiamo insieme”.
Guardando questo gesto resto sempre rapita e commossa… immagino come ci si senta ad essere prese per mano dalla divinità, ad essere guidate da lei nel cammino, ad essere tenute mano nella mano. E sento che, davvero, non vi sia cosa più bella.

La gestualità delle mani era una pratica sacra – sopravvissuta solo in certi tipi di danza dalle radici antiche, e anche in questo caso svolta raramente con consapevolezza.
Sarebbe bello ritrovare la magia della gestualità, tornare consapevoli dei nostri gesti, anche di quelli che sembrano piccoli e scontati, e compierli in modo vero e semplice.
Nella presenza a noi stesse/i, con intenzione, cura, e amore, sarebbero gesti sacri, offerte care al divino.

lunedì 15 agosto 2022

Di oro e turchese

Amo il mese di agosto, il sole è più dorato, il calore, anche quando intenso, è meno pressante, e i tramonti sui campi di riso che cominciano a ingiallire, sono esplosioni di fuoco e turchesi. Le foglie brillano nella luce oro, i soffioni si accendono come tanti lumi oro, il volo degli uccelli acquatici, aironi, garzette, anatre e ibis sacri, che si dirigono sicuri verso il sole, sembrano anime che viaggiano verso occidente, verso l’altromondo, che è oro di gioia e turchese di pace.

Ieri sera ho messo la maglia con le maniche lunghe, i pantaloni lunghi, le calzine. Ho respirato libera, aria fresca e leggera. Sotto la luna calante, velata dalle nuvole, ho avuto il primo brivido di freddo.
Il peggio è passato, e ciò che sta arrivando è sollievo, raccoglimento nei miei colori, casa.
E mentre attendo, vivo pienamente ciò che è qui adesso, e con gioia mi immergo negli ori più intensi, nei turchesi più brillanti, e persino nel calore pressante, che pur tuttavia lentamente si spegne.
Fotografia di autrice o autore sconosciuta/o, raccolta da Pinterest.

Le dee serpente nell'antico Egitto

La sacra serpentessa, erede delle antiche dee serpente preistoriche, compare nell’antico Egitto nella forma di alcune divinità femminili. Una di queste è Wadjet o Uadjet, conosciuta dai greci col nome di Uto, sorella di Nekhbet, con la quale forma la coppia chiamata “le Due Signore” o “le Due Dame”. Wadjet è la dea cobra che rappresenta e custodisce il Basso Egitto – la parte nord del delta del Nilo – la sua corona è rossa, simbolo del Basso Egitto, e il suo nome rimanda al papiro e significa “la Verde”. Era rappresentata come un serpente, o come una donna con la testa di serpente, o con due teste di serpenti, e talvolta era dotata di ali ampie e colorate.
La sua compagna, Nekhbet, dea protettrice della città di Nekheb – il suo nome significa “di Nekheb”, o “proveniente da Nekheb” – compare spesso nella forma di avvoltoio bianco, ma in certe raffigurazioni assume anch’essa la forma di un cobra, simile e speculare a quello di Wadjet. Nekhbet è dunque la dea avvoltoio o cobra, e rappresenta e custodisce l’Alto Egitto. La sua corona è bianca, simbolo dell’Alto Egitto, e lei era anche chiamata “la Bianca”.
Le Due Dame, la Verde e la Bianca, le due dee cobra, incoronavano il faraone e gli conferivano il diritto di regnare sull’Alto e Basso Egitto, di cui erano protettrici e incarnazioni, posando sulla sua fronte le due corone unite, una nell’altra.
Si deduce che il re potesse regnare solo grazie alla sovranità che il sacro femminile, in forma di serpente – e di uccello – gli concedeva. L’ureo, l’ornamento a forma di cobra che era posto sul copricapo regale egizio, all’altezza della fronte, era sacro a Wadjet e alla grande madre Hathor, ed era simbolo della forza e del potere che il re o la regina rappresentavano per l’Egitto e per il popolo.

Una terza divina serpentessa, misteriosa e bellissima, era Mertseger o Meretseger, dea locale che proteggeva la necropoli di Tebe e compariva come un cobra, come una donna dalla testa di cobra o come un cobra dalla testa di donna. Alcune volte era raffigurata armata di due coltelli. Il suo nome, composto da meret, “amata” o “colei che ama”, e seger, “silenzio”, significa Colei che Ama il Silenzio.
In quanto guardiana e protettrice della necropoli, si potrebbe ipotizzare che fosse amante del silenzio tombale, del silenzio nel quale giacciono i morti che stanno compiendo il sacro processo di rigenerazione. Con la dea Hathor Mertseger condivideva l’epiteto di Signora dell’Occidente, ovvero di Signora della necropoli e Signora dei morti.
Si credeva incarnasse la collina sovrastante la Valle dei Re, la Ta-Dehent – traducibile con “la Cima”, oggi chiamata el-Qurn, “il Corno” – e che abitasse nella profondità della sua terra, dalla base alla cima. In questo caso era chiamata Cima dell’Occidente, o la Signora della Cima.
Era madrina degli artigiani e proteggeva le sepolture dai saccheggiatori, che già all’epoca predavano le tombe dei loro ricchi tesori. Con loro era feroce e spietata, la sua ira era devastatrice e implacabile, ma con i suoi protetti, che si comportavano correttamente e la onoravano, era benefica, generosa e compassionevole.
Guardiana dei tesori dunque – in modo simile ad altre serpentesse di diverse culture successive – terribile e vendicativa, ma al contempo materna e benevola, era talvolta assimilata o identificata con Hathor, madre di tutte le madri, come terra fertile, custode dell’altromondo, dea ctonia della montagna dal sinuoso corpo di serpe.

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Le notizie sono state raccolte prevalentemente in Ruth Shilling, The Tomb of Queen Nefertari, pagg. 62-65 e Mario Tosi, Dizionario enciclopedico delle divinità dell'antico Egitto.





Fotografie di autrici e/o autori sconosciute/i.

giovedì 11 agosto 2022

Il Ritorno della Dea Distante e le favole pacificatrici di Thoth

Nel Libro della Vacca CelesteThe Book of the Heavenly Cow – raccontato tramite immagini e geroglifici in diverse tombe faraoniche, è presente la storia della Distruzione dell’Umanità per mano della furente e sanguinaria dea Sekhmet. Secondo questo mito, vi fu un tempo passato, simile a una fiorente Età dell’Oro, nel quale non esistevano la notte né la morte, e il dio solare Ra governava sull’umanità in pace e armonia. Gli esseri umani, volubili e ingrati, ritennero però che il dio fosse divenuto vecchio, e complottarono per sostituirlo. Ra lo venne a sapere, e tale fu la sua rabbia che decise di distruggere l’intera umanità, non più degna della sua presenza. Per farlo mandò il suo Occhio solare – l’Occhio di Ra – espresso come forza attiva femminile incarnata dalla radiante dea Hathor, a compiere il massacro, e la dea, presa da furia incontenibile, si mutò nella possente dea leonina Sekhmet e si abbatté sugli umani, uccidendone il più possibile e bevendo con avidità il loro sangue.
Soddisfatta del suo operato, la dea intendeva proseguire con la sua strage, e quando Ra cambiò idea e decise di interrompere la distruzione, salvando gli umani rimasti ancora in vita, Sekhmet non volle fermarsi. Allora Ra escogitò un piano, fece preparare 7000 giare di birra, alla quale fece aggiungere dell’ocra rossa a richiamare il colore del sangue – secondo alcuni studi si tratta più precisamente di birra o altra bevanda fermentata con l’aggiunta di mandragora o di polvere di ematite – e le versò laddove Sekhmet si sarebbe recata. La dea, scambiando la bevanda per sangue umano, la bevve tutta e si ubriacò. Allora la sua furia si dissolse nella sacra ebbrezza, e la dea tornò ad essere la gioiosa e gentile Hathor. La sua distruzione si interruppe e la vita riprese a scorrere. Da allora però, Ra si allontanò sul dorso della Vacca Celestiale, la grande dea cosmica Mehetueret, che da allora lo inghiotte ogni sera e lo ripartorisce ogni mattina, dando origine all’eterno susseguirsi del giorno e della notte.

Il Ritorno della Dea Distante, che dal suo aspetto distruttivo rappresentato dalla leonessa Sekhmet diviene nuovamente l’amorevole Hathor, viene festeggiato ogni anno, quando si verificano le inondazioni del Nilo a fertilizzare la terra, e descrive il ritorno della gioia e del benessere dopo un periodo di dolore e difficoltà.
Un mito che simbolicamente si adatta anche al ritorno a una sorta di età dell’oro interiore, ricondotta dalla presenza della dea della gioia, della bellezza, della musica e del piacere, dopo un periodo di dolorosa e triste lontananza.

Esistono alcune varianti di questo mito – a volte la dea Hathor-Sekhmet è sostituita dalla meno nota dea Tefnut – e fra queste, una in particolare è oltremodo ispirante.
In questa versione Hathor-Sekhmet o Tefnut, dopo un violento litigio con Ra, si allontana furiosa dall’Egitto, fermandosi in Nubia. A convincerla a tornare sarà il dio della luna, della saggezza e della scrittura Thoth, che riesce a placare la sua furia narrandole delle storie, delle favole, e intonando inni e canti.
In questa narrazione popolare, il ruolo del sapiente Thoth, “richiama la sua ieratica funzione di pacificatore della Dea ‘rabbiosa’, un ruolo espresso nel suo epiteto sehetep neseret, ‘colui che pacifica/propizia la fiamma divina’. In questo modo Thoth fa da mediatore tra il mortale e il divino, poiché l’esplosione di fuoco di queste Dee, chiamata neseret, forma una barriera o una sorta di velo fra questi due reami (...)”.

***

Le favole, i canti e le storie del dio lunare dalla testa di ibis, il divino cantastorie Thoth, cullano la rabbia impetuosa della dea furente, la placano, la spengono, riportando la fiamma divina ad ardere pacificamente. La barriera di fuoco che crea separazione, contrasto e scontro fra il mondo mortale e quello divino, si assottiglia di nuovo e le due dimensioni possono tornare a convivere e comunicare in pace.
Questo potrebbe anche far pensare che vi sia una sorta di similitudine tra la sacra ebbrezza data dalle bevande fermentate, e l’ascolto di storie e inni che cullano e incantano, portando ad uno stato di lieve alterazione della coscienza, di apertura al magico.
Forse è anche per questo che Thoth è il dio della magia. La magia cantata, scritta, raccontata, sotto i raggi luminosi della luna.
Illustrazione di Julia Cellini

La citazione è tratta dall’articolo di Edward P. Butler, The Book of the Celestial Cow: A Theological Interpretation, pag. 84. Ho consultato anche il libro di Carolyn Graves-Brown, Dancing for Hathor. Women in ancient Egypt, pagg. 169-170. Voglio però precisare che non mi sento di consigliare questo libro, in quanto, a mio personale parere, eccessivamente critico nei confronti delle teorie di Marija Gimbutas, dell’esistenza di una Dea Madre predinastica e scritto con un linguaggio che mi sembra poco utile al riscatto del femminile.

lunedì 8 agosto 2022

Regine nell'antico Egitto: La regina guerriera e la regina dea

Erano madre e figlia, due donne che regnarono nel Nuovo Regno, ebbero un grande potere, e lo misero in pratica per la difesa e la prosperità della loro terra. Ahhotep era la madre del faraone Ahmose, che fondò la XVIII dinastia (1550-1069 a.C.). Fu regina reggente, e durante il regno del figlio, giovane e inesperto, la forte e saggia Ahhotep, ne indirizzò i passi.
La regina fu sicuramente una figura influente anche nelle decisioni guerresche del marito e dei figli che diedero la vita uno dopo l’altro per la liberazione dell’Egitto [dagli Hyksos], infatti nella sua tomba (…) furono trovate fra le altre cose due pugnali, un’ascia cerimoniale e una collana con le mosche d’oro [tre] che rappresentavano un’onorificenza militare.
Figlia di Ahhotep fu Ahmose Nefertari – da non confondersi con Nefertari [Meritmut] moglie di Ramesse II – che sposò proprio Ahmose suo fratello. Ahmose Nefertari “fu la prima regina a portare il titolo di “Divina Sposa di Amon” e di “Divina Cantatrice di Amon”, che poi spetterà ad altre mogli, madri e sorelle dei faraoni. La regina (…) ebbe la gestione di terreni, botteghe artigiane e tesori del tempio.
Ma soprattutto, Ahmose Nefertari assunse il titolo di dea della resurrezione e dopo la morte di suo figlio Amenhotep I nacque un culto a lei dedicato. Venne rappresentata numerose volte in tombe e monumenti, e ritratta con la pelle nera, “colore associato alla fertilità della terra e quindi al suo ruolo di dea della resurrezione.” Uno dei suoi molti titoli, inoltre, fu “Signora del Cielo e dell’Occidente”, inteso come Signora del mondo oltre questo mondo, o dell’aldilà.
In tempi antichi poteva accadere che regine e donne di potere particolarmente amate assumessero durante la propria vita, o dopo la loro morte, il ruolo di dee. In loro onore nascevano culti, nei quali sacerdotesse e sacerdoti dedicavano loro il proprio servizio sacro.
Questo è ciò che accadde ad Ahmose Nefertari, la regina dea nera della resurrezione.
Fotografia del Neues Museum

Le citazioni sono tratte da Massimiliana Pozzi Battaglia e Federica Scatena, Regine, dee e donne nell’antico Egitto, Antiqua Res di Effigi Edizioni, pagg. 27, 81-83, 85-86.

venerdì 5 agosto 2022

Le Sacerdotesse nell'antico Egitto

Venivano chiamate hemet netjer, ovvero “ancelle della divinità”, in quanto la servivano, celebravano i suoi riti e custodivano i suoi misteri. Le sacerdotesse egizie servivano soprattutto divinità femminili, in particolare la dea Hathor, ma anche Neith, Isis, e la graffiante Pakhet – letteralmente “colei che graffia” – divinità che riuniva in sé la dea gatta Bast e la dea leonessa Sekhmet. Potevano tuttavia servire anche divinità maschili, come Amon o il dio della scrittura e della saggezza dall’aspetto di ibis, Thot.

Si hanno attestazioni archeologiche di sacerdotesse già nelle fasi più antiche della storia faraonica. Risale all’Antico Regno la tomba della “sacerdotessa di Hathor” Hetepet, vissuta alla fine della V dinastia probabilmente durante il regno del faraone Niuserra.” Dalla sua grande tomba, a Giza, decorata da splendide pitture parietali, “si deduce che “la sacerdotessa di Hathor, conoscente del re” Hetepet ricopriva un ruolo di notevole importanza non solo per i titoli a lei attribuiti, ma anche per il privilegio conferitole di essere seppellita in una tomba autonoma in una necropoli dedicata a funzionari di alto rango.

Una delle caratteristiche più affascinanti di certe sacerdotesse egizie sono i tatuaggi, rimasti impressi sul proprio corpo mummificato.

Vissuta all’inizio del Medio Regno, la sacerdotessa della dea Hathor, Amonet – la cui sepoltura a pozzo si trova a Deir el-Bahari – aveva la pelle tatuata di simboli sacri.
Sulla mummia di Amonet sono stati rinvenuti numerosi tatuaggi stilizzati, punti e linee disposti in varie parti del corpo” legati a “una funzione e un significato nella sfera religiosa.”
Inoltre, “il fatto che Amonet venne seppellita a Deir el-Bahari sembrerebbe ricondurla a una cerchia di sacerdotesse del culto di Hathor, dea particolarmente cara a Montuhotep II dal momento che anche alcune delle regine secondarie di questo sovrano, come Aashayt, Kauit, Myt e Henhenet, le cui sepolture sono state rinvenute all’interno del suo complesso funerario” – come anche la tomba di Amonet – “portavano il titolo di hemet netjer Hwt-Hor, “sacerdotessa di Hathor”.”

Ancora più interessante è la mummia di una sacerdotessa di cui non si conosce il nome, che visse a Deir el-Medina in epoca ramesside. Sul suo corpo sono stati individuati “circa trenta tatuaggi, non solo stilizzati (…) ma anche figurati come fiori, animali e geroglifici posti anche in zone visibili del corpo, il collo per esempio. Tra i simboli che hanno colpito maggiormente gli studiosi vi sono il segno nefer, che indica non solo la bellezza, ma anche la bontà e la perfezione divina, vacche sacre che probabilmente collegano la donna al culto della dea Hathor e l’amuleto udjat posizionato in vari punti, su spalle e collo; molti dei tatuaggi sono riconducibili al culto di Hathor e alcuni di essi sono simili ai graffiti votivi rinvenuti nel tempio dedicato alla dea a Deir el-Medina.
La funzione dei tatuaggi è ancora ipotetica, poteva trattarsi di “una pubblica espressione di devozione, oppure (…) rivestendo la donna un ruolo all’interno del clero di Hathor, i tatuaggi potrebbero aver avuto un valore magico-religioso durante le danze e i canti rituali in onore della dea.

Attestate numerose dalla metà dell’Antico Regno fino all’inizio del Nuovo Regno, le sacerdotesse della dea Hathor diminuiranno, e si diffonderà il titolo di “cantatrice”, intesa come cantrice della dea, così come musicista, danzatrice, portatrice della gioia e della bellezza di cui Hathor in particolare era espressione.
Hathor era dea della danza e della musica, e particolarmente interessante è una delle danze sacre svolte in suo onore.
Le danzatrici, sacerdotesse oppure laiche, eseguivano per la dea la “danza degli specchi”, durante la quale tenevano in mano “alcuni oggetti liturgici sacri alla dea: gli specchi, che mossi durante la danza probabilmente producevano particolari giochi di luce ed erano associati al concetto di rinascita, e le nacchere, costituite da due valve in legno o avorio a forma di mano, decorate con fiori di loto o immagini di Hathor. Strumenti sacri ad Hathor, dea della musica e della danza, erano anche i due sistri sesheshet e sekhem, il cui suono armonico e ritmico emesso durante le cerimonie liturgiche incantava le orecchie della dea.”

In merito alle donne o sacerdotesse scriba, erano rare ma presenti. Portavano il titolo di seshat, ovvero semplicemente “scriba”, e probabilmente avevano gli stessi incarichi degli scribi uomini.
Fra esse, si ricorda Iduy, vissuta durante la XII dinastia, “il cui titolo rimane su un sigillo scarabeo (…).”
Diverse erano invece le “Cantatrici di Amon” che “nelle tombe tebane si sono fatte rappresentare con gli strumenti da scriba sotto il seggio.” Questo lascia presupporre che la scrittura fosse fra le loro sacre mansioni nei templi o nelle scuole.
Dipinto di Kinuko Craft

Le citazioni sono tratte da Massimiliana Pozzi Battaglia e Federica Scatena, Regine, dee e donne nell’antico Egitto, Antiqua Res di Effigi Edizioni, pagg. 27, 81-83, 85-86.

martedì 2 agosto 2022

Nefertari Meritmut

Non mi sono mai interessata troppo all’Egitto, l’ho sempre sentito molto lontano sia come paese sia come cultura. Tuttavia negli ultimi mesi, grazie all’amore smisurato che provo per la regina Nefertari e per la sua tomba, nella Valle delle Regine a Luxor, ho sentito l’esigenza di approfondire ciò in cui lei credeva, la realtà prettamente femminile che lei viveva, e proprio cercando il sacro femminino dove non lo avevo mai preso troppo in considerazione, mi si è aperto un mondo. Facendo attenzione a non cadere nel banale – di Egitto parlano tanto tutti da sempre, ma in modi che mi hanno quasi sempre allontanata – e cercando le tracce nascoste in questa cultura che pur essendo patriarcale, lo è molto meno rispetto al mondo greco romano, sto trovando frammenti di bellezza davvero unici.
Ne condivido alcuni, quelli che mi stanno dando e ispirando di più, a partire proprio dal nome dell’amata Nefertari.
Come descritto precedentemente, la parola nefer significava “bello e buono”, ovvero indicava sia la bellezza estetica che l’equilibrio, la bontà e la perfezione; unito a tari la parola è traducibile con “Bellissima Compagna”, la bellissima compagna del grande faraone Ramesse II, che amava chiamarla “Colei per la quale sorge il sole”.
Ma la regina aveva, come spesso accade, un nome esteso: il suo nome completo era infatti Nefertari Meritmut.
La parola egiziana merit significa “amata”, “colei che è amata”, mentre Mut era la grande dea madre, una delle più antiche divinità egizie. Meritmut significa quindi “Amata da Mut”, o “Colei che è amata dalla dea Mut”.
Nefertari Meritmut era la “Bellissima Compagna Amata da Mut”.

Il geroglifico, nonché la forma animale, che rappresenta la dea madre Mut è l’avvoltoio, un uccello che potrebbe sembrare strano per rappresentare la madre delle madri. In realtà l’avvoltoio è un animale considerato estremamente nobile e materno, l’unico rapace che non uccide, ma si nutre di prede già morte. Si dice anche che stia sotto il sole cocente con le ali distese per fare ombra ai suoi piccoli, sacrificando se stesso per il conforto dei suoi pulcini. Per questo motivo rappresenta la madre che nutre e si sacrifica, dando tutto ai suoi figli.
L’avvoltoio era anche sacro alla dea Isis, e fa parte del tipico copricapo delle regine.

Spesso Nefertari viene confusa con un’altra regina molto bella, Nefertiti, moglie del faraone Akhenaton (1351 a.C. – 1333 a.C.). Anche il suo nome contiene la parola nefer, ma è traducibile con “la Bellissima è Giunta”. Il suo nome completo era Neferneferuaton Nefertiti, ovvero “Bellissima è la bellezza di Aton” – nefer-nefer-u-aton – “la Bellissima è Giunta” – nefer-titi.
Fotografia di Araldo De Luca, scattata nella tomba di Nefertari, QV66, - Queen Valley 66

Le notizie sono state raccolte in gran parte dal libro di Ruth Shilling, The Tomb of Queen Nefertari, All One World Books & Media, 2020, pagg. 4-6.